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Romero, un nome da ricordare

Il 24 marzo 1980 veniva ucciso a San Salvador mons. Oscar Romero. Riportiamo il suo ricordo di Paolo Giuntella pubblicato nel primo numero della rivista “Il Margine” (n.1 /1981).

di Paolo Giuntella

Oscar Arnulfo Romero: un nome, è asprissimo doverlo ammettere, già dimenticato, inciso indelebilmente in poche carni. Il suo paese e i suoi contadini gli sopravvivono devastati, fra i cadaveri calpestati dai militari, dai miliziani. Eppure è stato un vescovo ucciso in chiesa al momento dell’elevazione: ma i primi a dimenticarlo sono già i cattolici, la sua Chiesa cui fu sempre serenamente fedele, fino al martirio.

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Siamo tutti malati… di umanità!

di MichaelDavide Semeraro

In questi giorni siamo tutti chiamati a confrontarci e, in certo modo, a riconciliarci profondamente con la nostra umanità. Perlopiù, almeno nella nostra sensibilità e cultura occidentale, quando facciamo ricorso a questa parola <umanità>, siamo soliti farlo in modo assai solenne e talvolta presuntuoso. Evochiamo questa preziosa parola, in cui ci riconosciamo, per distinguerci dalle altre creature viventi, nel senso di una eccellenza che diamo per scontata e per acquisita. In realtà, questa parola rimanda radicalmente a quell’humus da cui siamo stati tratti e verso cui siamo chiamati a ritornare con serenità, dopo aver percorso il nostro cammino di umanità. La caratteristica più propria della nostra dignità umana è la consapevolezza della nostra realtà che dovrebbe generare sempre l’humilitas. L’umiltà è propria delle persone umane degne di questo nome.

Il testo della riflessione completa è disponibile a questo link

Ontologia della distanza

di Michele Nicoletti

Rispettare la “distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro”.

Come in autostrada rispettiamo la distanza di sicurezza tra i veicoli per evitare uno scontro, una collisione, nel caso di una frenata improvvisa.

Ora la distanza è divenuta “interpersonale”.

A qualcuno pare insopportabile. Non c’è da stupirsi. Gli esseri umani amano il contatto. Si possono riprodurre soltanto unendosi. La sopravvivenza della specie – così è stato almeno per millenni, ora le tecnologie riproduttive consentono anche la fecondazione a distanza, ma distanti sono gli individui, perché il seme e l’ovulo alla fine devono pure incontrarsi e toccarsi – è legata all’incontro.

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La tragedia sul confine greco-turco

Articolo pubblicato su “Il Trentino” del 5 marzo 2020

di VINCENZO PASSERINI 

Gli elicotteri italiani in uso all’esercito turco del “cattivo” Erdogan sono macchine micidiali. Un’arma insostituibile per il secondo esercito della Nato (29 Paesi). Sono gli Agusta A 129 Mangusta, prodotti in Italia o costruiti in Turchia su licenza della Leonardo italiana, la nostra azienda di Stato. Florida azienda. Le“ prodezze” dell’elicottero contro i curdi sono state filmate dai turchi nel febbraio di due anni fa. 

Il filmato è stato descritto da un giornalista: “Una ventina di curdi si nasconde in un fitto oliveto. Hanno sentito il rumore di un elicottero e sono convinti che le chiome degli alberi li renderanno invisibili. Invece il visore infrarossi ‘spoglia’ gli ulivi e individua le sagome delle persone. Non si sa se siano uomini o donne, civili o miliziani. I piloti turchi li uccidono uno dopo l’altro, inseguendo quelli che cercano di scappare. Sparano un centinaio di proiettili, commentando la carneficina con grida di giubilo e mi mando il suono delle raffiche” (Gianluca Di Feo, “I micidiali elicotteri made in Italy il vero orgoglio del Sultano”, “Repubblica”, 16 ottobre 2019). Ricorda Di Feo che Finmeccanica ha ottenuto1 miliardo e 79 milioni soltanto per la licenza, l’assistenza, i prototipi. E poi altri soldi per ogni esemplare. Contratto del 2007. E nel 2016 contratto per 12 cannoni Oerlikoon prodotti da Rheinmentall Italia (A. Cuzzo crea e F. Tonacci , “Il cannone da 600 colpi al minuto in partenza da Roma verso Ankara”, “Repubblica”, 16 ottobre 2019). E negli ultimi tre anni, un altro mezzo miliardo di euro alle aziende italiane per armi alla Turchia. Facciamo anche noi la nostra parte nella guerra in Siria. Americani e altri paesi europei fanno la parte del leone nel costruire il potentissimo arsenale di Erdogan. Se non ci siamo col cuore in Siria, noi occidentali ci siamo col portafoglio. E con le armi. Dal canto loro i russi аrmano Assad, il dittatore siriano nemico di Erdogan. E così, Occidente e Russia si spartiscono i soldi, l’energia, il controllo dell’area. Ma non vogliono spartirsi i profughi.

Gli affari, le armi, l’energia sì. Le vittime di questo sporco commercio, quelle no. Non fa leggermente schifo questa supposta civiltà occidentale? Quella dei valori da difendere? Siamo di fronte a una tragedia umanitaria gigantesca. L’epicentro è Idlib, estremo nord-ovest della Siria, tra Aleppo e la non lontana costa mediterranea, vicino ad Ebla, vicino al confine col lembo più meridionale della Turchia. Qui resiste l’ultima roccaforte dei ribelli anti-Assad. La Turchia considera questa zona spettante alla propria influenza. Ma dallo scorso dicembre, Assad, con l’aiuto dei russi, ha deciso di prendersi a tutti i costi l’enclave ribelle. E bombarda senza pietà. Da allora 950.000 persone (su 2 milioni e mezzo che vivono nell’area), per lo più donne e bambini, hanno dovuto lasciare le loro case. I campi profughi sono stracolmi, le persone vivono in ripari di fortuna, all’aperto, al freddo, bisognose di tutto. Una delle peggiori crisi umanitarie degli ultimi anni, secondo l’Onu. Di loro non si è curata l’Europa, se non quando Erdogan ha tirato fuori nuovamente l’arma del ricatto: o mi sostenete di più nella guerra con Assad e i russi, o apro le porte ai 4 milioni di profughi che tengo in Turchia perché entrino in Grecia, cioè nella Unione Europea. Nel 2016 ci fu il disumano accordo tra Europa e Turchia: a questa, 6 miliardi di euro perché fermasse i profughi. Ma solo 3,2 miliardi sono stati effettivamente sborsati, e un altro miliardo e mezzo impegnato, scrive Beda Romano (“Quell’accordo del 2016 che ha legato l’Europa al ricatto di Erdogan”, “Il Sole 24 ore”, 4 marzo 2020). C’è una “insolvenza” da parte dell’UE di 1 miliardo e 300 milioni di euro. Erdogan vuole soldi, armi e sostegno politico per la sua sporca guerra. Per far capire che non scherza, ha aperto le porte per la Grecia a migliaia di profughi. La Grecia li respinge. Li bastona in mare, addirittura. Gli estremisti di destra li assaltano. Una tragedia senza fine per i pro fughi, vittime delle bombe, del freddo, della fame, degli sporchi affari dei potenti, dell’odio di tanti. E’ una colpa essere profughi? L’ex ministro Salvini vorrebbe mandare l’esercito in Grecia. Non contro chi viola i diritti umani, ma contro chi subisce le violazioni. L’esercito a sparare contro le vittime. L’ultima versione della guerra umanitaria. Un’altra perla dello sbandieratore di rosari e crocifissi. Intanto nell’isola greca di Lesbo, vicino alle coste mediterranee del nord della Turchia, 20 mila profughi vivono in condizioni di sperate. Tantissimi bambini e donne. Reportage allucinanti. Ci sono bambini che tentano il suicidio. 

Oggi, 5 marzo, Erdogan sarà a Mosca per incontrare Putin, il principale sponsor del suo nemico Assad. L’altro ieri la presidente della Commissione dell’Unione Europea, Ursula von der Leyen, insieme ad altri capi Ue, è stata sul confine greco-turco. Promessi 700 milioni alla Grecia. Ma dopo quattro anni, nessuna politica europea in materia di profughi e migranti è stata adottata. Basta vedere an che l’altra gravissima situazione, quella libica. Anche qui: soldi europei ai libici purché fermino i migranti, anche nei lager, dove si ricatta, tortura, uccide. Sembra che gli europei ragionino ormai solo a base di soldi. I valori umani sono spariti. Dove siamo finiti? Se i populisti e i leghisti non avessero impedito la riforma del trattato di Dublino, forse ci troveremmo con una Europa più responsabile e più corresponsabile. Forse. Intanto nelle ultime ore, altre bombe siriane-russe su Idlib hanno ucciso 9 civili, tra cui 5 bambini. Ma i bambini morti sono stati decine e decine in questi ultimi mesi. Assad pratica deliberatamente il terrore, su scuole, ospedali, mercati. 

Senza stancarsi, papa Francesco continua, in solitudine, a denunciare questa tragedia. A ricordare al mondo le vittime delle guerre, la disperazione dei profughi, la vergogna del traffico delle armi, il dominio del dio denaro. Non lasciamolo solo. 

OSEA, profeta della tenerezza ferita

introduzione a cura di Lidia Leonelli

Quando è stato proposto di avvicinarci al profeta Osea, qualcuno lo ha chiamato il profeta della fedeltà, dell’amore fedele di Dio. Io avevo in mente il profeta della tenerezza di Dio, del suo essere amorevole, del suo sollevare il bambino alla guancia, prenderlo per mano, insegnargli i primi passi, chinarsi su di lui per dargli da mangiare. Quella tenerezza, che forse ha ispirato Papa Luciani a parlare di Dio come madre oltre che come Padre.

Ravasi lo ha definito il profeta della misericordia di Dio. La misericordia, quella compassione radicata, nella lingua ebraica, nell’utero.

Ma è anche il profeta dell’amore ferito, come è ferito l’amore di un marito tradito dalla sua sposa, ferito eppure tenero e appassionato.

Vi chiedo di avere pazienza per la limitatezza di quello che dirò, per le imprecisioni, per le semplificazioni, per l’incapacità di cogliere, come vorrei, tanti punti di questo bellissimo libro. Prendete quello che dirò solo come uno spunto di partenza, un tentativo balbettante ma amoroso. Cercherò di seguire alcune parti, e faccio fatica perfino a citare con precisione i versetti. Quello che desidero è di suscitare il desiderio di leggere per intero e di ascoltare questo profeta.

Dopo la serata, Fabio mi ha chiesto di fargli avere il testo che avevo preparato. Lo faccio volentieri, ma sono solo appunti e anche un po’ sbrigativi. Abbiate pazienza anche per questo.

Nell’esposizione orale avevo utilizzato, oltre al testo e alle spiegazioni tratti dalla Bibbia di Gerusalemme,  una preziosa meditazione su Osea, e in particolare sui versetti Osea 2,14-23, proposta da don Angelo Casati il 12 marzo 2014 nella chiesa di S. Francesca Romana, e qualche altra riflessione. Nell’esposizione scritta, ho deciso di inserire il testo di don Angelo per intero, intercalandolo, e aggiungendo quei passaggi che nell’esposizione orale avevo tralasciato per brevità. Mi sono permessa però di cambiare in alcuni punti l’ordine, senza cambiare il contenuto.

Ho letto e riletto il libro di Osea ed è stato come una preghiera. Ho aggiunto qualche altro pensiero, senza presunzione, che lascia il discorso aperto a domande, cui forse riusciremo a cercare assieme risposte.

Mi conforta che perfino don Angelo, che ne sa molto di più, introduca il suo discorso dicendo:

Una tenerezza ferita. È il titolo che è stato dato a questa meditazione sul profeta Osea. E io vi confesso che, non essendo un esegeta di professione, è come se mi sentissi tra le mani un testo prezioso

Da difendere dalla mia misura, povera. A rischio, a rischio di rozzezza. So però che il testo è affidato anche a voi e allo spirito che vi abita. E questo mi dà fiducia. Sento anche che questo testo ce  lo teniamo nelle mani stretto, come un regalo, questa sera.

Inizierò con una breve cornice storica, cui non sono abituata. L’aiuto di Teresa Ciccolini mi ha fatto capire però che il contesto storico è importante, perché  indica come la profezia, che pure è universale, rivolta a tutti e a ciascuno in ogni paese e in ogni epoca, nasca, si esprima e vada ascoltata dentro la storia. Dio ci parla attraverso la storia, le storie, la vita.

Osea, il cui nome significa “Il Signore salva, il Signore viene in aiuto” è contemporaneo di Amos. Inizia a profetare all’epoca di Geroboamo II (783-743 a.C.), e continua sotto i suoi successori. Vive nel regno di Israele o Regno di Samaria, chiamato spesso regno del Nord, che si è

formato alla morte di Salomone, attorno al 933 a.C, quando il regno delle 12 tribù si divise, e che ebbe fine nel 722 a.C., anno della conquista assira, con la distruzione della capitale Samaria e la deportazione della popolazione.

All’epoca di Geroboamo II profetarono anche Giona e Gioele.

Quella degli Assiri, con capitale Assur o Ninive, è una civiltà militarizzata, che però attinge alle fonti più civili della cultura della Babilonia. Gli Assiri erano i nemici, quelli da cui fu mandato, a Ninive, Giona a chiedere di convertirsi.

Nel regno di Israele, a differenza che in quello di Giuda, non ci fu mai una dinastia che riuscisse ad affermarsi a lungo, ma si susseguirono vari re, di case diverse. Tra il 732 e il 724  regnò un re chiamato Osea, insediato dagli Assiri.

Osea vive e profetizza in un periodo torbido, cupo, di ricchezza e di corruzione religiosa, poltica e morale.

Cercherò di mettere in risalto, alcuni punti del libro del profeta Osea, che poi troveremo nella lettura del testo

– Osea profetizza attraverso la propria vita, ubbidendo e compiendo quanto il Signore gli comanda. La sua vita parla del Signore e il Signore parla attraverso la sua vita, che diventa una parabola vivente.

Osea, dice Enzo Bianchi, ha aperto la strada alla rivelazione di Dio fatta da Gesù.  Gesù infatti farà conoscere Dio attraverso la propria vita, che sarà, come dice Paolo De Benedetti, un midrash vivente.

– Osea profetizza attraverso i propri sentimenti, i propri conflitti, le proprie sofferenze e pene d’amore, attraverso la collera e l’ira, e ci fa vedere un Dio che non è indifferente, ma che soffre.

Dice  Gianfranco Ravasi (8 marzo 2015, Bose), “ Dio non è indifferente, la sofferenza di Dio è atto d’amore. Dio non dovrebbe soffrire, dato che la sofferenza è segno del limite della creatura. In realtà  c’è un dolore, una sofferenza che è pienezza e non imperfezione”.

– Attraverso il rapporto con la moglie che lo tradisce e si prostituisce, Osea parla, in molti versi che sembrano il contrario del Cantico dei Cantici, del rapporto travagliato di Dio con Israele e con l’umanità intera, il suo cercare e non essere cercato.

– Osea parla di un Dio innamorato, di un Dio fedele. Fedele nel senso che c’è sempre e che resta fedele alla promessa contenuto nel suo nome “Io ci sono”. Un Dio fiducioso e affidato all’amata, al suo popolo, all’umanità, anche quando è tradito, ferito, dimenticato. Un Dio che cerca l’amata e ne ha bisogno. Che vuole essere corrisposto, amato. Che vuole sposarla ed essere chiamato “marito”, non “padrone”

         -“Il Signore  è in causa con gli abitanti del paese.

Accusa i sacerdoti perché  rifiutano la conoscenza di Dio, la conoscenza del cuore. “Perisce il mio popolo per mancanza di conoscenza”; e perché hanno dimenticato la legge di Dio, che li ha fatti uscire dall’Egitto. Ma non vuole che noi giudichiamo. (Luciano Monari)

– Si adira e promette castighi:

“Con  le loro greggi e i loro armenti

andranno in cerca del Signore,

ma non lo troveranno.

         Ma si pente della propria ira, si converte, perdona e sogna.

         Sogna il    ritorno della propria amata.

– Perdona e con il suo perdono previene il pentimento. Il suo amore e il suo perdono fanno conoscere il suo cuore e producono la conversione, che è un’azione di Dio e ha per soggetto primo Dio.    La conversione è frutto del perdono, e viene dopo il perdono. La sequenza è: peccato, perdono, conversione (Ravasi a Bose, 8 marzo 2015)

-Al perdono corrisponde una nuova creazione, tutto sarà nuovo, vergine, il mondo intero, animale e vegetale. Dio sogna il ritorno dell’amata, sogna di essere corrisposto, sogna la risposta reciproca, in un tripudio della natura, in cui tutto viene creato nuovo, anche

il mondo animale, in cui violenza e sofferenza non possono collegarsi con una colpa personale (Piero Stefani)

Anche la natura ha bisogno di salvezza ed essa verrà dal perdono e dalla nuova cura che l’umanità convertita ne avrà.

Questo un riassunto di alcuni punti, di questo ricchissimo testo.

Una tenerezza ferita.

Angelo Casati, Chiesa di s. Francesca Romana, Milano, 12 marzo 2014.

Ascoltandolo, già forse ci ha colpito che Dio per raccontare di sé, e della sua storia con noi,  usi come simbolo quello dell’amore tra un uomo e una donna.

Osea è il primo dei profeti che ha osato l’inosabile sino ad allora. Ha osato fare, dell’amore tra un uomo e una donna – e non un amore angelicato, ma un amore colmo di passione, di tensione, di smarrimenti e di ricerca – il simbolo dell’amore di Dio verso il suo popolo. Verso di noi.

Il profeta lo fa partendo dalla sua esperienza, da una vicenda d’amore, la sua, per nulla tranquilla, molto problematica, storia di un uomo che prende in moglie una prostituta. Si è molto discusso se l’esperienza che racconta Osea sia stata reale o no, oggi molti esegeti propendono per il sì.

Comunque, ci interroga  il fatto che Osea desideri raccontare di Dio e del rapporto di Dio con noi a partire dalla esperienza di un matrimonio travagliato, di un amore tradito. 

Il libro inizia con queste parole:

Quando il Signore cominciò a parlare a Osea, gli disse:

“Va’, prenditi in moglie una prostituta ,

genera figli di prostituzione,

poiché il paese non fa che prostituirsi

allontanandosi dal Signore” (Os 1,2).

E, ancora, all’inizio del capitolo terzo:

Il Signore mi disse: “Va’ ancora, ama la tua donna: è amata da un altro, è amata dal marito ed è adultera; come il Signore ama i figli di Israele ed essi amano altri dei”.

Ebbene, forse non senza meraviglia e emozione, noi questa sera abbiamo sentito risuonare in questa chiesa parole che accompagnano le storie d’amore: la seduzione, il cuore, l’intimità, la gelosia, lo scambio dei nomi più teneri, la fedeltà, l’incantamento. Diremmo in una parola la “tenerezza”. Per raccontare Dio. E ne parliamo.

Ma per evitare di dare una immagine pallida alla parola “tenerezza” dobbiamo accennare a che cosa sta prima nel libro. Prima delle parole tenerissime. Prima c’è una ferita, la tenerezza ferita. Prima c’è la storia di un amore tradito, prima c’è questo altalenarsi, oserei dire infinito, di amore appassionato ma anche di gelosia, prima ci sono rimproveri, ci sono minacce, ci sono castighi annunciati alla donna infedele.

A me piace pensare che il Signore parli proprio attraverso la vita di Osea

1. 2 “Va, prenditi in moglie una prostituta,

e genera figli di prostituzione,

poiché il paese non fa che prostituirsi

allontanandosi dal Signore.”

Lui lo fa. Sposa Gomer, figlia di Diblàim e nasce un figlio.

1.4“Chiamalo Izreeèl”  (Dio semina),

perché tra poco punirò la casa di Ieu.”

E lui lo fa.

Gomer concepì di nuovo e partorì una figlia

1.6“Chiamala Non-amata,

perché non amerò più la casa di Israele,

non li perdonerò più.”

Quando ebbe svezzato “Non-amata” , Gomer concepì e partorì un figlio:

1.9 “Chiamalo Non – popolo mio,

perché voi non siete popolo mio

e io per voi non sono.”  

Eppure subito dopo, il Signore si ricorda della promessa fatta ad Abramo e parla alle generazioni future:

2.1 “Il numero degli Israeliti

sarà come la sabbia del mare,

che non si può misurare né contare. 

E si dirà di loro “Siete figli del Dio vivente”.

I figli di Giuda e i figli di Israele

si riuniranno insieme”

2.3 “Dite ai vostri fratelli “Popolo mio”,

e alle vostre sorelle “Amata”.

E poi di nuovo parla ai figli di Osea

e parla con il linguaggio dell’amore tradito, nel quale però si intravede la tenerezza. Parla come se pensasse al divorzio, usando la formula di divorzio usata in Mesopotamia e forse anche in Israele.

2.4  “Accusate vostra made, accusatela

perché lei non è più mia moglie

e io non sono più suo marito!” 

Ma non cede all’odio.  Anche nel linguaggio del suo amore tradito, traspaiono ovunque note di tenerezza. Nella minaccia di denudare l’amata, vediamo la minaccia di svergognarla, e ricordiamo Ester che si rifiuta di farsi vedere ballare nuda per il re suo sposo. Ma vediamo anche la neonata venuta nuda al mondo, che suscita tenerezza e desiderio di soccorrerla.

2.5  “Si tolga dalla faccia i segni delle sue prostituzioni,

e i segni del suo adulterio dal suo petto;

altrimenti la spoglierò tutta nuda

e la renderò simile a quando nacque  

e la ridurrò a un deserto, come una terra arida,

e la farò morire di sete.

Dio promette castighi, mette alla prova, vuole impedire di continuare sulla strada che  allontana da lui,  vuole riprendere la sua amata con l’ardore del fidanzamento e ricolmarla di beni. E noi sentiamo riecheggiare le vicende del peregrinare del popolo nel deserto e troviamo anche il figliol prodigo che torna e trova il Padre ad attenderlo. Il desiderio di Dio è che nessuno la tolga più dalle sue mani, che non sono mani di padrone,   ma mani di innamorato.

2.8“Perciò ecco, ti chiuderò la strada con spine,

la sbarrerò con barriere

e non ritroverà i suoi sentieri.

2.9 Inseguirà i suoi amanti,

ma non li raggiungerà,

li cercherà senza trovarli.

Allora dirà “ Ritornerò al mio marito di prima,

perché stavo meglio di adesso.

2.10 Non capì che io le davo grano, vino nuovo e olio

2.12 Scoprirò allora le sue vergogne

Agli occhi dei suoi amanti,

E nessuno la toglierà dalle mie mani.

2.14 Devasterò le sue viti e i suoi fichi,

2.15 La punirò per i giorni dedicati a Baal

Vorrei leggervi –dice Angelo Casati- alcuni tra i versetti che precedono immediatamente, senza cesure, quelli letti questa sera, perché qui avviene un dirottamento:

“Scoprirò allora le sue vergogne

agli occhi dei suoi amanti

e nessuno la toglierà dalle mie mani.

Farò cessare tutte le sue gioie,

le feste, i noviluni, i sabati,

tutte le sue assemblee solenni.

Devasterò le sue viti e i suoi fichi, di cui ella diceva:

“Ecco il dono che mi hanno dato i miei amanti”.

Li ridurrò a una sterpaglia

e a un pascolo di animali selvatici.

La punirò per i giorni dedicati ai Baal,

quando bruciava loro i profumi,

si adornava di anelli e di collane

e seguiva i suoi amanti,

mentre dimenticava me!

Oracolo del Signore.

Perciò…” (Os 2, 12-16)

Ecco, “perciò…”.  Che cosa ci aspetteremmo? Ci aspetteremmo: “Io la faccio finita, via da me, io la incenerisco”. Secondo logica, secondo logiche umane, non potrebbe essere che così!  Ma ecco il dirottamento dalle premesse:

“Perciò” – pensate –  

“ecco, io la sedurrò,

la condurrò nel deserto

e parlerò al suo cuore”. (Os.12.16)

Un dirottamento, Dio va in tutt’altra direzione. Noi questa sera siamo venuti ad assistere al dirottamento di Dio. Direi di più a un dirottamente che, stando alle sue parole, fa parte della natura stessa di Dio. Dio, per far diverso, fa appello, pensate, al fatto che lui è Dio. Sempre nel libro di Osea, al capitolo undicesimo Dio dirà:

Non darò sfogo all’ardore della mia ira,

non tornerò a distruggere Efraim,

perché sono Dio e non un uomo;

sono il Santo in mezzo a te

e non verrò a te nella mia ira. (Os 11, 9).

“Non darò sfogo all’ardore della mia ira…io sono Dio!”.

Stupefacente! Per poco che conosciamo le scritture sacre, noi sappiamo che quando si tratta di Dio non c’è nulla di ovvio, siamo in vista di dirottamenti.

Io non so se posso esprimermi così con voi, senza destare insurrezione da parte degli esegeti. E’ come se Dio, stando alle parole del profeta, tornasse indietro, si pentisse di aver fatto certi pensieri. So che scandalizzo qualcuno. Ma nel libro dell’Esodo non sta forse scritto: ”Il Signore si pentì” – Dio si pente! – “Il Signore si pentì del male che aveva detto di fare al suo popolo” ? (32, 14).

Io non so se posso esprimermi così, ma leggendo il testo quasi mi verrebbe da dire che Dio matura in sé questa consapevolezza: che a ricondurre a sé la donna non saranno le sue minacce, non sarà l’aver fatto terra bruciata intorno a lei, non sarà l’averla denudata, ma sarà la sua tenerezza. Si ricorderà forse Dio – me lo chiedo – che nel giardino degli inizi, proprio nel giorno della nudità degli umani, proprio lui, con infinita tenerezza cucì  all’uomo e alla sua donna tuniche di pelle e li vestì”?

Chissà, me lo chiedo, se questa è l’immagine che ci è rimasta di Dio. E chissà se questa è l’immagine che noi abbiamo lasciato di Dio nella storia, se questa è  l’immagine che lasciamo oggi nella storia, l’immagine di un Dio innamorato. Di un Dio innamorato o di un Dio padrone?

Noi veniamo da una stagione – alcuni di voi ricordano – in cui si parlava della morte di Dio. Vi confesso che più volte mi sono sorpreso a chiedermi – e mi sembrava di essere in buona compagnia, nella buona compagnia del Concilio – se gli uomini del mio tempo cercavano di mettere a morte Dio, o non forse, senza

saperlo, una brutta immagine di Dio, che avevano da noi ereditato.

Ma  ritorniamo al testo, ritorniamo alla buona immagine di Dio, alla buona notizia:

Dopo le minacce,  Dio prosegue esprimendo il suo desiderio:

la disgrazia (Acor) verrà trasformata in amore corrisposto

2.16 “Perciò, ecco, io la sedurrò,

la condurrò nel deserto

e parlerò al suo cuore”

2.17 e trasformerò la valle di Acor in porta di speranza.

Là mi risponderà

come nei giorni della sua giovinezza,

come quando uscì dal paese d’Egitto.

Dice Angelo Casati:

Ecco la sedurrò,

la condurrò nel deserto

e parlerò al suo cuore.

Là risponderà

come nei giorni della sua giovinezza,

come quando uscì dal paese d’Egitto. (Os. 2,16-17)

Leggevo e pensavo: forse è vero che ci mancano i giorni della nostra giovinezza.
Forse è vero che il cuore denuncia qualche stanchezza e che la vita
–- la mia vita – si è come appesantita, ha perduto d’intensità, di vibrazioni, di entusiasmo. E’ avvenuto come un logoramento, un invecchiamento. Forse è vero. E che cosa sperare? Che cosa augurarci se  non che Dio ci conduca nel deserto?

Forse deserto è questo nostro essere nudi: l’aver corso mille strade, l’aver bussato a mille porte, per poi  fissare sgomenti le nostre mani vuote. Eppure – voi lo sapete – non mi basta che qualcuno mi rinfacci la stoltezza, la sprovvedutezza del mio correre vano o del mio prostituirmi a idoli vuoti, ai miti vani del tempo. Non mi bastano – voi lo sapete – non mi bastano le prediche che mi dicono: “l’hai voluto tu. Ora  lo paghi questo tuo affannarti dietro mille cose”. Non mi bastano gli uomini della legge che fanno a gara a sbattermi in faccia il deserto, il deserto del cuore. Questi discorsi mi lasciano più triste e più vuoto di prima.
La speranza è in questo Dio che, nonostante tutto, mi attira, come innamorato, nel deserto. E nel deserto ha la tenerezza di chi parla al cuore.

“Parlare al cuore”:  siamo lontani dunque da un parlare categorico, un parlare che ti fa stare nella paura, nella sudditanza, ti fa stare in un rapporto di puro scambio: a tanto tanto.

Parlare al cuore o, meglio, parlare “sul cuore” – così dice il testo ebraico – “sul cuore”, che è il parlare tenerissimo degli innamorati. Sono tanti infatti quelli che ti parlano. Sono meno, molto meno, quelli che parlano al cuore. E sono pochi, li conti, quelli che parlano sul tuo cuore. Ed è l’unica cosa che ti cambia. Non ti cambiano le accuse, i rimproveri, le minacce. Ti cambia la fiducia di uno che ti usa tenerezza. E Dio è di questi. Lascia che  ti parli “sul cuore”.

2.18  mi chiamerai “Marito mio” ,

e non mi chiamerai più “Baal mio padrone”.

E ancora è scritto

Le toglierò dalla bocca

I nomi dei baal

E non saranno più chiamati per nome.  (Os. 2.19)

Ecco,  Dio ti libera dai baal, cioè da coloro  che pretendono di esercitare su di te un diritto di proprietà.  Non solo non soffoca la libertà Dio, non solo è uno  che la libertà  la onora e la dilata. Non solo, ma è un Dio che non accetta che altri assumano su di te l’immagine di un padre-padrone, l’immagine di un baal. Nessuno! In nessun   ambito, né nella famiglia, né nella società, né nella chiesa.

“Ba’al”, in ebraico, significa signore nel senso di “padrone”, uno che ti fa da padrone, uno che ti compra con il pane, con l’ambizione, con il miraggio del potere e ti fa schiavo, ti fa cadere alle sue ginocchia. “Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai” (Mt 4,9) dirà a Gesù il satana nel deserto. Dio ci tolga dalla bocca i nomi dei nuovi baal, che popolano a dismisura, tronfi e arroganti, le nostre strade. Dio ci faccia vigilanti. Oggi, non meno di ieri, è tempo di “vitelli d’oro”. E stupisce come al vitello d’oro rimanga inalterata, anzi quasi maggiorata, la forza della seduzione.

Ti chiedi come non avvenga che si passi, di bocca in bocca, un grido d’allarme, un grido che ci faccia tutti vigilanti e resistenti, tanto e tale è il saccheggio della libertà, quella interiore, che si profila all’orizzonte. Che cosa ci ha a tal punto narcotizzati da non vedere, da non capire, da non pensare? Siamo anche noi arrivati a questa deriva di rimpiangere cipolle e cocomeri d’Egitto, dimenticando che i nostri padri, i resistenti, avevano indubbiamente meno cose di noi, ma custodivano gelosamente la fierezza della libertà?

Io non so se abbiamo sempre misurato quanto questa cattiva interpretazione della grandezza abbia creato distruzioni e disarmonie in noi, nei nostri rapporti sulla terra.

Questa volontà di dominio, questo voler essere come Dio, ha fatto del giardino, del giardino dell’Eden, un deserto, ha fatto e sta facendo, del giardino della terra un deserto.

Solo se ci convertiremo veramente dal dio padre-padrone al dio della tenerezza, se, fedeli alla sua vera immagine, ci convertiremo dalla logica del dominio alla logica della tenerezza, in tutti gli ambiti, famiglia, lavoro, chiesa società vedremo rifiorire noi stessi e la terra.

Vorrei leggere in questa luce i versetti che seguono direttamente il nostro testo nel rotolo di Osea:

2.20 In quel tempo farò per loro un’alleanza

con gli animali selvatici

e gli uccelli del cielo

e i rettili del suolo;

arco e spada e guerra

eliminerò dal paese,

e li farò riposare tranquilli.

2.21 Ti farò mia sposa per sempre,

ti farò mia sposa

nella giustizia e nel diritto,

nell’amore e nella benevolenza,

ti farò mia sposa nella fedeltà

e tu conoscerai il Signore.

Il Signore cancella il passato adultero, e a seguito del suo perdono, avviene la conversione, e inizia un tripudio in tutta la creazione, che sarà rinnovata. Una nuova creazione. Israele diventa una creatura nuova, sposata dal Signore, che si “fidanzerà” con lei, dice il verbo usato,  come si fa con una vergine.

C’è esultanza in queste parole del Signore. Sposerà Israele, il suo popolo

nella giustizia e nel diritto. Questa sarà la dote che il fidanzato offre alla promessa sposa: la disposizione interiore per essere fedele d’ ora in poi alla nuova alleanza. Il Signore stipula un’alleanza nuova per sempre, sarà fedele per sempre

Sposerà Israele nell’amore e nella benevolenza,  

porterà in dote anche l’amore , la capacità di amare (hesed). L’amore fedele di Dio,  chiede infatti di essere ricambiato e  corrisposto ( cf. “mi ami tu?” )   con tutto il cuore, con l’amiciziafiduciosa, l’abbandono, la tenerezza, la pietà, l’ascolto gioioso della volontà di Dio, la carità verso il prossimo.       Questo è l’ideale dei Hasidìm.

2.22 ti farò mia sposa nella fedeltà

e tu conoscerai il Signore.

Il Signore porta in dote anche la fedeltà e la conoscenza , quella che nasce dall’unione intima.

2.23 E avverrà, in quel giorno

– oracolo del Signore –

io risponderò al cielo

ed esso risponderà alla terra;

la terra risponderà al grano,

al vino nuovo e all’olio

e questi risponderanno a Izreèl.

Io li seminerò di nuovo per me nel paese (Os 2,18-22).

Passare dalla logica  del dominio alla logica della tenerezza è il segreto per riportare armonia sulla terra. Nel brano del profeta Osea mi colpiva la bellezza del verbo “rispondere”. La voce chiama, e c’è una risposta. Quando accade nella vita questo corrispondersi nasce l’armonia del mondo. Il vero male, la vera disgrazia accade quando avviene un grido, c’è una domanda,  e non c’è risposta.

Che cosa possiamo desiderare, per che cosa possiamo impegnarci se non perché chi chiama abbia risposta e questa armonia, coinvolga, avvolga la terra e la creazione? E’ scritto: “Io risponderò al cielo, il cielo risponderà alla terra e la terra risponderà con il grano, il vino nuovo e l’olio”. 

Allora nasce, fiorisce il giardino. Dal deserto al giardino.  Il giardino nasce dalla tenerezza.

2.25  Io li seminerò di nuovo  per me nel paese

e amerò Non-amata

e a Non-popolo-mio dirò “Popolo-mio”

ed  egli mi dirà: “Dio mio”.

E conosciamo di nuovo la tenerezza di Dio per i suoi figli, rinati, seminati, trasformati; il suo desiderio e la   nuova promessa di amore reciproco, di tenerezza reciproca, di appartenenza  reciproca. Quella tenerezza , espressa nell’aggettivo “mio”, che fa riconoscere e dire  “Popolo-mio” e “Dio-mio”. 

E ci viene in mente che l’incredulo Tommaso.  Toccato dalla tenerezza di Gesù:   “Gli rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio” ”  (Gv.20.28)

Il Capitolo 3  parla della forza dell’amore che resiste.

3.1 “Il Signore mi disse: va ancora, ama la tua donna”.  

Osea riscatta sua moglie dall’attuale padrone e dal santuario  dove si è fatta schiava sacra.  Paga il riscatto di una schiava.

Dio prospetta sogna e promette un rapporto di reciprocità

3.3 “Per molti giorni starai con me , non ti prostituirai e non sarai di alcun uomo. Così anch’io mi comporterò con te”

Il capitolo 4 dice come la situazione attuale sia molto diversa da quella che vuole il Signore, da quella che lui sogna, e come Osea chiami ad ascoltare la parola del Signore.

4.1 Ascoltate la parola del Signore, o figli d’Israele,

perché Il Signore è in causa

con gli abitanti del paese. 

Non c’è infatti sincerità né amore,

né conoscenza di Dio nel paese.

4.3 Per questo è in lutto il paese

E chiunque vi abita langue,

insieme con gli animali selvatici,

e con gli uccelli del cielo;

persino i pesci del mare periscono.

4.4  “Ma nessuno accusi, nessuno contesti.

Contro di te, sacerdote, muovo l’accusa,

4.6  “perisce il mio popolo per mancanza di conoscenza.

“Poiché  tu rifiuti la conoscenza,

rifiuterò te come sacerdote;

hai dimenticato la legge del tuo Dio

e anch’io dimenticherò i tuoi figli.

Anche qui, nell’accusa al sacerdote, c’è una nota di tenerezza in quel “tuo”. Hai dimenticato la legge del tuo Dio.

Noi non siamo chiamati a giudicare, anzi ognuno sia pronto ad accettare l’accusa di Dio, riferita alla mancanza di  quella conoscenza intima che entra a far parte dell’intimo dell’uomo, come rivolta a sé. (Luciano Monari, Vescovo di Piacenza- Bobbio, Bose 2001).

4.9. Il popolo e il sacerdote avranno la stessa sorte;

li punirò per la loro condotta

e li ripagherò secondo le loro azioni.

Mangeranno, ma non si sazieranno,

si prostituiranno, ma non aumenteranno.

4.13 Sulla cima dei monti fanno sacrifici

E sui colli bruciano incensi.

E non sarà che alla Chiesa di oggi, e quindi a ciascuno di noi, Dio chieda meno esibizione, meno teatro, meno organizzazione, meno dichiarazioni, meno recite e più vita, più sincerità, più vicinanza?

4.16 E poiché come giovenca ribelle si ribella Israele,

forse potrà pascolarlo il Signore come agnello in luoghi aperti?

Il capitolo 5 dice di tempi bui. Sacerdoti, notabili e re conducono il popolo alla rovina

5.6 Con le loro greggi e i loro armenti

andranno in cerca del Signore,

ma non lo troveranno:

egli si è allontanato da loro.

5.10 I capi di Giuda sono diventati

come quelli che spostano i confini,

Presi da sete di potere e di dominio, combattono guerre fratricide. E il Signore si adira.

5.14 Io sarò come un leone per  Efraim,

come un leoncello per la casa di Giuda.

Io li sbranerò e me ne andrò,

porterò via la preda e nessuno me la toglierà.

Me ne tornerò alla mia dimora,

finché non sconteranno la pena

e cercheranno il mio volto,

e ricorreranno a me nella loro angoscia.

6. Il profeta immagina però una conversione, un ritorno del popolo al Signore

6.1 Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà

Dopo due giorni ci ridarà la vita

e il terzo ci farà rialzare.    

Da Tertulliano in poi la tradizione cristiana ha collegato questo testo alla Risurrezione.  Ci fascerà: come una madre fascia un bambino, come si fasciano le ferite, come si fasciano i corpi dei morti?

6  Ma il pentimento del popolo dura poco e il Signore è deluso,

vuole l’amore, vuole la conoscenza di Dio più degli olocausti.

6.4  “Il vostro amore è come una nube del mattino

Come la rugiada che all’alba svanisce.

6.5 Per questo li ho abbattuti per mezzo dei profeti,

li ho uccisi con le parole della mia bocca

e il mio giudizio sorge come la luce:

6.6 Poiché voglio l’amore e non il sacrificio,

la conoscenza di Dio più degli olocausti.

7. Non tornano a lui e il Signore si adira ancora

7.10 Non ritornano al Signore, loro Dio,

e, malgrado tutto, non lo ricercano

7.11 Efraim è come un’ingenua colomba,

priva d’ intelligenza;

ora i suoi abitanti domandano aiuto all’Egitto,

ora invece corrono verso l’Assiria.

E minaccia castighi.

7.13 Disgrazia per loro,

perché si sono allontanati da me!

Distruzione per loro,

perché hanno agito male contro di me.

Non gridano a me con il loro cuore.

Il capitolo 8 parla di un periodo buio di disordine politico e di idolatria.

8.7 E poiché hanno seminato vento

Raccoglieranno tempesta

8.9 Sono come un asino selvatico,  che si aggira solitario.

8.11 Efraim ha moltiplicato gli altari,

ma gli altari sono diventati per lui

un’occasione di peccato.

8.13 Offrono sacrifici

E ne mangiano le carni,

ma il Signore non li gradisce;

ora ricorda la loro iniquità,

chiede conto dei loro peccati:

dovranno tornare in Egitto.

Egitto è anche l’Egitto interiore, la terra delle nostre schiavitù. E’ il mondo della “caduta”. Di esso parla Annick de Souzenelle nel libro “L’Egitto interiore, le 10 piaghe dell’anima” Servitium, 2009.

Per chi fosse interessato, c’è in rete, con questo titolo, un commento di Ivano Caminada in www.darsipace.it

9.3 Non potranno restare nella terra del Signore,

ma Efraim tornerà in Egitto

9. 7 Sono venuti i giorni del castigo.

Israele lo sappia.

Il profeta diventa pazzo,

l’uomo ispirato vaneggia

A causa delle tue molte iniquità.

Il Signore ricorda il suo amore e le sue cure per il suo popolo, pronto a perdonare

9.10 Trovai Israele come uva nel deserto,

ebbi riguardo per i vostri padri,

come per i primi fichi quando iniziano a maturare.

Ma essi non lo seguono

E  la prospettiva conseguente all’allontanamento dal Signore è terribile

desolazione, è non vita.

9.11La gloria di Efraim volerà via come un uccello,

non più nascite, nè gravidanze, né concepimenti.

9.16 Efraim è stato percosso,

la loro radice è inaridita,

non daranno più frutto.

Anche se generano,

farò perire i cari frutti del loro grembo.

E poi di nuovo ricordo affettuoso e nostalgico,

rimpianto, esortazione, minaccia da parte di Dio

10.1  Vite rigogliosa era Israele,

che dava sempre il suo frutto;

ma più abbondante era il suo frutto,

più moltiplicava gli altari.

10.2 Il loro cuore è falso,

orbene, sconteranno la pena!

10.11 Ma io farò pesare il giogo

sul suo bel collo

attaccherò Efraim all’aratro

e Giacobbe all’erpice.

10.12 Seminate per voi secondo giustizia

e mieterete secondo bontà;

dissodatevi un campo nuovo

perché è tempo di cercare il Signore

finché Egli venga

e diffonda su di voi la giustizia.

La pena contiene anche un’esortazione e una promessa

che si avvererà:  se accetteremo il giogo,  esso diventerà leggero ( Il mio giogo è leggero Mt. 11-30).

Se dissoderemo il terreno arido del nostro cuore e ne faremo un campo allora sapremo accogliere il seme e mieteremo.  Gesù racconterà la parabola del Buon Seminatore.

Perché il terreno non dissodato resta arido, ha bisogno del seme.

E il seme ha bisogno del campo, per germogliare e dare frutto. Terreno e seme sono l’uno per l’altro ( Mt. 13, 1-23; Lc.8,5-15)  (Franco Giulio Brambilla, Incontro coscienza e Parola, Ambrosianeum, Milano, 14.2.2020)

E’ questa la prospettiva della risposta vicendevole, dopo essersi vicendevolmente cercati.

Poi ancora parole terribili:

10.14 Un rumore di guerra si alzerà contro il tuo popolo

E tutte le tue fortezze saranno distrutte.

Come a Salmàn devastò Bet-Arbél

nel giorno della battaglia

In cui la madre fu sfracellata sui figli

E poi quelle più tenere, di una tenerezza infinita

11. Quando Israele era fanciullo,

io l’ho amato

e dall’Egitto ho chiamato mio figlio.

Ma più li chiamavo

Più si allontanavano da me.

A Efraim io insegnavo a camminare

Tenendolo per mano,

ma essi non compresero

che avevo cura di loro.

Io li traevo con legami di bontà.

Con vincoli d’amore,

ero per loro

come chi solleva un bimbo alla sua guancia,

mi chinavo su di lui

per dargli da mangiare.

Il popolo è di dura cervice.

Eppure il Signore non lo può abbandonare,

si commuove e ha compassione.

Non lo distruggerà, perché è Dio, non uomo.

11.7 Il mio popolo è duro a convertirsi:

chiamato a guardare in alto,

nessuno sa sollevare lo sguardo

Come potrei abbandonarti Efraim,

come consegnarti ad altri, Israele?

11.8 Il mio cuore si commuove dentro di me,

il mio intimo freme di compassione.

11.9 Non darò sfogo all’ardore della mia ira,

non tornerò a distruggere Efraim,

perché sono Dio e non uomo;

sono il santo in mezzo a te

e non verrò da te nella mia ira.

11.10 Seguiranno il Signore

Ed egli ruggirà come un leone:

quando ruggirà,

accorreranno i suoi figli dall’occidente,

accorreranno come uccelli dall’Egitto,

come colombe dall’Assiria

e li farò abitare nelle loro case.

Oracolo del Signore. 

Il popolo prosegue nelle menzogne e nella frode

e il Signore si ricorda di Giacobbe.

12.3  Il Signore è in causa con Giuda

e punirà Giacobbe per la sua condotta,

lo ripagherà secondo le sue azioni.

Egli nel grembo materno soppiantò il fratello

E da adulto lottò con Dio,

lottò con l’angelo e vinse,

pianse e domandò grazia.

Vorrei capire meglio questo passo, su cui molti si sono interrogati.

Sono stata sempre colpita dal racconto della nascita di Giacobbe che  teneva in mano il calcagno del fratello, con cui litigava già nel grembo di sua madre. Dal racconto  del suo essere benedetto dal padre al posto del fratello, grazie all’aiuto della madre. Ed ero giunta a pensare che volessero dire una predilezione di Dio per il “minore”, per il “piccolo”, per il “mite”.

Anche la lotta con l’angelo, che si chiude con una benedizione e con la zoppia di Giacobbe, mi ha fatto molto pensare, l’avevo letta come lotta interiore contro la propria presunzione, fino a rendersi conto di essere limitato, fino ad arrendersi al Signore e a chiedere di essere benedetto così, nel proprio essere zoppicante.

Il commento che ho trovato in nota nella Bibbia di Gerusalemme, 2009, dice che gli episodi della vita di Giacobbe sono ripresi da Osea nei loro aspetti negativi: peccatore  fin dal seno materno, Giacobbe continua a peccare nell’età adulta.

Mi piace pensare, ma senza presunzione di avere capito, che forse in Osea il Signore ricorda e tiene in cuore quegli eventi della vita di Giacobbe e li ripensa e li riconsidera, mentre  guarda come il popolo si comporta ora e vede come si comporta male, voglioso di essere grande, forte, dominatore.

Per chi fosse interessato segnalo l’elaborato del biennio filosofico teologico della Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna, che si trova in rete,  “La lotta di Giacobbe” di Michael Giovannini, seguito nella tesi dal Prof. Giuseppe Scimè, che presenta spunti esegetici dall’antica tradizione giudaico cristiana su Genesi 32, 23-33.

Eppure continua ad amarlo

12.10 Eppure io sono il Signore tuo Dio,

fin dal paese d’Egitto.

Ti farò ancora abitare sotto le tende,

come nei giorni dell’incontro del deserto.

Io parlerò ai profeti,

moltiplicherò le visioni,

e per mezzo dei profeti parlerò con parabole”.

E anche quando promette castighi e vede avvicinarsi la rovina, fa intendere che è a fin di bene e che il suo amore è più forte delle resistenze che gli vengono opposte

3.6 spezzerò la corazza del loro cuore

14.1 Samaria sconterà la sua pena,

perché si è ribellata al suo Dio.

Periranno di spada,

saranno sfracellati i bambini;

le donne incinte sventrate.

Osea chiama alla conversione il popolo, suggerisce parole di pentimento:

14.4 non cavalcheremo più su cavalli,

né chiameremo più “dio nostro”

l’opera delle nostre mani,

perché presso di te l’orfano trova misericordia”

e mi viene da pensare alla caduta da cavallo di Paolo

E sull’ira, sul dolore, sul rimpianto, predomina nel Signore la compassione, la misericordia, la tenerezza amorosa, per questi orfani.

14.5 Io li guarirò dalla loro infedeltà,

li amerò profondamente,

poiché la mia ira si è allontanata da loro.

14.6 Sarò come rugiada per Israele;

fiorirà come un giglio

14.8 Ritorneranno a sedersi alla mia ombra,

faranno rivivere il grano,

fioriranno come vigne,

saranno famosi come il vino del Libano.

14.9 Che ho ancora in comune con gli idoli, o Efraim?

Io l’esaudisco e veglio su di lui;

io sono come un cipresso sempre verde,

il tuo frutto è opera mia.  14.10 chi è saggio comprenda queste cose,

chi ha intelligenza le comprenda;

poiché rette sono le vie del Signore,

i giusti camminano in esse,

mentre i malvagi v’inciampano.

Il Signore promette che ci siederemo alla sua ombra e che allora ci prenderemo cura della terra.

Dice Annick de Souzenelle : “ci è permesso di leggere la storia dell’uomo come la storia della lenta formazione dell’Adam (l’uomo totale) in un grembo cosmico di cui la nostra terra sarebbe come la placenta legata a Dio in una immensa funzione di maternità”

(L’Egitto Interiore o le dieci piaghe dell’anima, pag.21)

Mi piace pensare ad Osea come al profeta dell’amore di Dio Padre e Madre per i suoi figli.

Dice Angelo Casati:

Alla mente mi ritorna una pagina folgorante dello scrittore Ennio Flaiano, là dove abbozzava un ipotetico ritorno di Gesù sulla terra, un Gesù, infastidito da giornalisti e fotoreporter, come sempre invece vicino ai drammi e alle fatiche dell’esistenza quotidiana:

“Un uomo” -scrive- “condusse a Gesù la figlia ammalata e gli disse: “Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami”. Gesù baciò quella ragazza e disse: “In verità questo uomo ha chiesto ciò che io posso dare”. Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando le folle a commentare quei miracoli e i giornalisti a descriverli”.

A convertirci  – il profeta Osea ce lo ricorda – non sono certo i segni clamorosi, a convertirci è la tenerezza di Dio. La tenerezza ferita.

Pierre e Mohamed

Pierre e Mohamed
Algeria, due martiri dell’amicizia

Autore: Candiard Adrien

Prefazione di: Timothy Radcliffe
Postfazione di: Jean-Paul Vesco

Due amici: Pierre Claverie, un vescovo cattolico, Mohamed Bouchikhi, un giovane musulmano. Il primo ha scelto di restare in Algeria per testimoniare Cristo dentro la violenza del terrorismo. Il secondo ha deciso di diventare il suo autista. Intorno a questi due personaggi, reali come la vita e la morte, infuria la guerra civile: siamo nell’Algeria degli anni Novanta, 150mila morti ammazzati nello scontro fratricida fra integralisti islamici e militari.

Queste due voci raccontano un’amicizia in grado di vincere,
spiritualmente, anche la morte: il vescovo Pierre che resta a fianco del suo popolo come chi rimane «al capezzale di un fratello ammalato, in silenzio, stringendogli la mano». Per questo motivo oggi la chiesa lo riconosce martire. E l’autista Mohamed, ben consapevole del rischio, che resta accanto all’amico cristiano in pericolo di vita. Fino alla fine, fino a quel drammatico 1° agosto 1996. In queste pagine Pierre e Mohamed, ricostruiti con squisita profondità e impareggiabile delicatezza da Adrien Candiard, ci trasmettono un’incrollabile verità:
«Amare non è forse preferire l’altro alla propria vita? Senza la morte
non ci sarebbe nulla da preferire a noi stessi».

Pierre e Mohamed

Due martiri dell’amicizia

Una storia veramente toccante di una relazione essenziale che intreccia vite e vicende storiche nel tragico panorama algerino  degli anni ’90.

Pierre Claverie, vescovo cattolico di Orano, e Mohamed Bouchikhi, il suo autista, un legame umano che li ha portati a condividere, lucidamente, il martirio senza mai abbandonare il loro popolo.

Pierre, nato in Algeria da buona famiglia francese, non recide mai il legame con quello che ha sempre ritenuto il suo popolo che lo ricambia in questo legame ‘essenziale’ e lo riconosce.

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Hans Leipelt, una rosa oltre le macerie

(18 luglio 1921, Vienna – 29 gennaio 1945, Monaco-Stadelheim)

Hans Leipelt mentre recupera libri dopo un bombardamento aereo

Non aveva conosciuto gli autori dei fogli della Rosa Bianca, ma quando gli capita tra le mani il sesto e ultimo volantino contenente l’invito alla resistenza nonviolenta contro il nazismo decide con la fidanzata Marie Luise Jahn di riprodurre nuove copie con la macchina da scrivere e di distribuirle ad Amburgo ed in altre città.
Avendo conosciuto la sorte dei fratelli Scholl, di Christob Probst e degli altri componenti del gruppo condannati a morte per alto tradimento aggiungono di loro pugno al testo del volantino “𝘌 𝘪𝘭 𝘭𝘰𝘳𝘰 𝘴𝘱𝘪𝘳𝘪𝘵𝘰 𝘤𝘰𝘯𝘵𝘪𝘯𝘶𝘢 𝘢 𝘷𝘪𝘷𝘦𝘳𝘦 𝘯𝘰𝘯𝘰𝘴𝘵𝘢𝘯𝘵𝘦 𝘵𝘶𝘵𝘵𝘰!”.

Continua la lettura di Hans Leipelt, una rosa oltre le macerie

Effetto serra, effetto guerra

Effetto serra, effetto guerra: Clima, conflitti, migrazioni: l’Italia in prima linea

Effetto serra, effetto guerra. Il clima impazzito, le ondate migratorie, i conflitti. Il riscaldamento globale, i ricchi, i poveri

Vedere il problema dell’immigrazione e dei conflitti dalla parte del clima. Una prospettiva inedita. Quanto i cambiamenti climatici influiscono sulle migrazioni e sulle crisi internazionali? Più il deserto avanza più le ondate migratorie aumentano. Più cresce il pericolo di guerre.

Un analista diplomatico (Grammenos Mastrojeni) e un fisico del clima (Antonello Pasini) indicano la strada per gestire cooperativamente il futuro che ci aspetta e che sarà segnato dalla rivoluzione climatica già in atto.

Continue ondate migratorie aprono scenari a cui non eravamo preparati, e paiono il preludio a esodi di interi popoli. Le aree dove questi sommovimenti si originano hanno tutte qualcosa in comune: il clima che cambia, il deserto che avanza e che sottrae terreno alle colture mettendo in ginocchio le economie locali. Clima e guerre, clima e terrorismo. È difficile tracciare una precisa concatenazione di cause ed effetti fra il riscaldamento globale e i singoli eventi che ci hanno traumatizzato recentemente, ma una cosa è ormai certa: il clima che cambia contribuisce al disagio e all’aumento della povertà di intere popolazioni, esposte più facilmente ai richiami del terrorismo e del fanatismo. In tutto questo, l’Italia è in prima linea: lo sanno bene a Lampedusa. Per questo un climatologo e un diplomatico – così lontani, così vicini – hanno preso la penna giungendo alle stesse conclusioni: se abbandoniamo i più poveri da soli alle prese col cambiamento climatico, non solo facciamo finta di non capire ciò che ci insegnano la moderna scienza del clima e l’analisi geopolitica – che siamo tutti sulla stessa barca e che i problemi sono interconnessi e hanno una dinamica globale –, ma lasciamo anche crescere un bubbone di conflittualità che prima o poi raggiungerà pure noi; i primi migranti del clima lo sanno bene. Prendere coscienza dei rischi di un clima impazzito può favorire un’operazione di pace, integrazione e giustizia di portata inedita.

“Effetto serra, effetto guerra” di Grammenos Mastrojeni e Antonello Pasini, edizioni Chiarelettere

Carlo Maria Martini e gli anni di Piombo

Carlo Maria Martini e gli “anni di Piombo”.
Un libro di Silvia Meroni, editrice Ancora

https://www.ancoralibri.it/index.php?route=product/product&product_id=8508

La vicenda del terrorismo ha segnato più di quanto si possa immaginare la storia personale di Carlo Maria Martini, che ha cercato di rimanere sempre accanto alle vittime, ma anche di disarmare le mani di coloro che scelsero di seminare terrore perdendo la propria umanità .

Nel libro la puntuale ricostruzione di quanto fatto e detto da Martini negli anni del suo episcopato milanese si intreccia con le testimonianze inedite di alcuni familiari di vittime del terrorismo, davvero toccanti e capaci di aprire squarci di riflessione originale.

«Il più evidente filo rosso che attraversa queste pagine è costituito dal dialogo che il vescovo di Milano ha intessuto con i familiari delle vittime del terrorismo, che l’autrice ha ricostruito principalmente attraverso la documentazione disponibile e gli incontri personali con i figli e le vedove delle vittime. La testimonianza di questo dialogo, che si è svolto quasi sempre lontano dai riflettori e che in alcuni casi non si è mai interrotto, risulta oggi particolarmente preziosa, anzitutto perchè sul piano storico colma una lacuna e ci restituisce il volto di un vescovo che si è lasciato interpellare dalle vittime della violenza terroristica.» (dalla postfazione di Alberto Conci e Francesco Scanziani)