introduzione a cura di Lidia Leonelli
Quando
è stato proposto di avvicinarci al profeta Osea, qualcuno lo ha chiamato il
profeta della fedeltà, dell’amore fedele di Dio. Io avevo in mente il profeta
della tenerezza di Dio, del suo essere amorevole, del suo sollevare il bambino
alla guancia, prenderlo per mano, insegnargli i primi passi, chinarsi su di lui
per dargli da mangiare. Quella tenerezza, che forse ha ispirato Papa Luciani a
parlare di Dio come madre oltre che come Padre.
Ravasi
lo ha definito il profeta della misericordia di Dio. La misericordia, quella
compassione radicata, nella lingua ebraica, nell’utero.
Ma
è anche il profeta dell’amore ferito, come è ferito l’amore di un marito
tradito dalla sua sposa, ferito eppure tenero e appassionato.
Vi chiedo di avere
pazienza per la limitatezza di quello che dirò, per le imprecisioni, per le
semplificazioni, per l’incapacità di cogliere, come vorrei, tanti punti di
questo bellissimo libro. Prendete quello che dirò solo come uno spunto di
partenza, un tentativo balbettante ma amoroso. Cercherò di seguire alcune
parti, e faccio fatica perfino a citare con precisione i versetti. Quello che
desidero è di suscitare il desiderio di leggere per intero e di ascoltare
questo profeta.
Dopo la serata,
Fabio mi ha chiesto di fargli avere il testo che avevo preparato. Lo faccio
volentieri, ma sono solo appunti e anche un po’ sbrigativi. Abbiate pazienza
anche per questo.
Nell’esposizione
orale avevo utilizzato, oltre al testo e alle spiegazioni tratti dalla Bibbia
di Gerusalemme, una preziosa meditazione
su Osea, e in particolare sui versetti Osea 2,14-23, proposta da don Angelo Casati il 12 marzo
2014 nella chiesa di S. Francesca Romana, e qualche altra riflessione. Nell’esposizione
scritta, ho deciso di inserire il testo di don Angelo per intero,
intercalandolo, e aggiungendo quei passaggi che nell’esposizione orale avevo
tralasciato per brevità. Mi sono permessa però di cambiare in alcuni punti
l’ordine, senza cambiare il contenuto.
Ho letto e riletto
il libro di Osea ed è stato come una preghiera. Ho aggiunto qualche altro
pensiero, senza presunzione, che lascia il discorso aperto a domande, cui forse
riusciremo a cercare assieme risposte.
Mi conforta che
perfino don Angelo, che ne sa molto di più, introduca il suo discorso dicendo:
Una tenerezza ferita. È il titolo che è stato dato a
questa meditazione sul profeta Osea. E io vi confesso che, non essendo un
esegeta di professione, è come se mi sentissi tra le mani un testo prezioso
Da difendere dalla mia misura, povera. A rischio, a
rischio di rozzezza. So però che il testo è affidato anche a voi e allo spirito
che vi abita. E questo mi dà fiducia. Sento anche che questo testo ce lo teniamo nelle mani stretto, come un regalo,
questa sera.
Inizierò con una
breve cornice storica, cui non sono abituata. L’aiuto di Teresa Ciccolini mi ha
fatto capire però che il contesto storico è importante, perché indica come la profezia, che pure è
universale, rivolta a tutti e a ciascuno in ogni paese e in ogni epoca, nasca, si
esprima e vada ascoltata dentro la storia. Dio ci parla attraverso la storia,
le storie, la vita.
Osea, il cui nome
significa “Il Signore salva, il Signore viene in aiuto” è contemporaneo di Amos.
Inizia a profetare all’epoca di Geroboamo II (783-743 a.C.), e continua sotto i
suoi successori. Vive nel regno di Israele o Regno di Samaria, chiamato spesso
regno del Nord, che si è
formato alla morte
di Salomone, attorno al 933 a.C, quando il regno delle 12 tribù si divise, e
che ebbe fine nel 722 a.C., anno della conquista assira, con la distruzione
della capitale Samaria e la deportazione della popolazione.
All’epoca di
Geroboamo II profetarono anche Giona e Gioele.
Quella degli
Assiri, con capitale Assur o Ninive, è una civiltà militarizzata, che però
attinge alle fonti più civili della cultura della Babilonia. Gli Assiri erano i
nemici, quelli da cui fu mandato, a Ninive, Giona a chiedere di convertirsi.
Nel regno di
Israele, a differenza che in quello di Giuda, non ci fu mai una dinastia che
riuscisse ad affermarsi a lungo, ma si susseguirono vari re, di case diverse.
Tra il 732 e il 724 regnò un re chiamato
Osea, insediato dagli Assiri.
Osea vive e
profetizza in un periodo torbido, cupo, di ricchezza e di corruzione religiosa,
poltica e morale.
Cercherò di
mettere in risalto, alcuni punti del libro del profeta Osea, che poi troveremo
nella lettura del testo
– Osea profetizza attraverso la propria vita,
ubbidendo e compiendo quanto il Signore gli comanda. La sua vita parla del
Signore e il Signore parla attraverso la sua vita, che diventa una parabola
vivente.
Osea, dice Enzo Bianchi, ha aperto la strada alla
rivelazione di Dio fatta da Gesù. Gesù infatti
farà conoscere Dio attraverso la propria vita, che sarà, come dice Paolo De
Benedetti, un midrash vivente.
– Osea profetizza attraverso i propri sentimenti, i
propri conflitti, le proprie sofferenze e pene d’amore, attraverso la collera e
l’ira, e ci fa vedere un Dio che non è indifferente, ma che soffre.
Dice Gianfranco
Ravasi (8 marzo 2015, Bose), “ Dio non è indifferente, la sofferenza di Dio è atto
d’amore. Dio non dovrebbe soffrire, dato che la sofferenza è segno del limite
della creatura. In realtà c’è un dolore,
una sofferenza che è pienezza e non imperfezione”.
– Attraverso il rapporto con la moglie che lo tradisce
e si prostituisce, Osea parla, in molti versi che sembrano il contrario del
Cantico dei Cantici, del rapporto travagliato di Dio con Israele e con l’umanità
intera, il suo cercare e non essere cercato.
–
Osea parla di un Dio innamorato, di un Dio fedele. Fedele nel senso che c’è
sempre e che resta fedele alla promessa contenuto nel suo nome “Io ci sono”. Un
Dio fiducioso e affidato all’amata, al suo popolo, all’umanità, anche quando è
tradito, ferito, dimenticato. Un Dio che cerca l’amata e ne ha bisogno. Che
vuole essere corrisposto, amato. Che vuole sposarla ed essere chiamato
“marito”, non “padrone”
-“Il Signore è in causa con gli abitanti del paese.
Accusa
i sacerdoti perché rifiutano la
conoscenza di Dio, la conoscenza del cuore. “Perisce il mio popolo per mancanza
di conoscenza”; e perché hanno dimenticato la legge di Dio, che li ha fatti
uscire dall’Egitto. Ma non vuole che noi giudichiamo. (Luciano Monari)
–
Si adira e promette castighi:
“Con le loro greggi e i loro armenti
andranno in cerca del Signore,
ma non lo troveranno.
Ma si pente della propria ira, si
converte, perdona e sogna.
Sogna il ritorno della propria amata.
–
Perdona e con il suo perdono previene il pentimento. Il suo amore e il suo perdono
fanno conoscere il suo cuore e producono la conversione, che è un’azione di Dio
e ha per soggetto primo Dio. La conversione è frutto del perdono, e viene
dopo il perdono. La sequenza è: peccato, perdono, conversione (Ravasi a Bose, 8
marzo 2015)
-Al perdono corrisponde una nuova creazione, tutto
sarà nuovo, vergine, il mondo intero, animale e vegetale. Dio sogna il ritorno
dell’amata, sogna di essere corrisposto, sogna la risposta reciproca, in un
tripudio della natura, in cui tutto viene creato nuovo, anche
il mondo animale, in cui violenza e sofferenza non
possono collegarsi con una colpa personale (Piero Stefani)
Anche la natura ha bisogno di salvezza ed essa verrà
dal perdono e dalla nuova cura che l’umanità convertita ne avrà.
Questo un riassunto di alcuni punti, di questo
ricchissimo testo.
Una tenerezza ferita.
Angelo Casati, Chiesa di s. Francesca Romana, Milano, 12
marzo 2014.
Ascoltandolo, già forse ci ha colpito che Dio per
raccontare di sé, e della sua storia con noi,
usi come simbolo quello dell’amore tra un uomo e una donna.
Osea è il primo dei profeti che ha osato l’inosabile sino
ad allora. Ha osato fare, dell’amore tra un uomo e una donna – e non un amore
angelicato, ma un amore colmo di passione, di tensione, di smarrimenti e di
ricerca – il simbolo dell’amore di Dio verso il suo popolo. Verso di noi.
Il profeta lo fa partendo dalla sua esperienza, da una
vicenda d’amore, la sua, per nulla tranquilla, molto problematica, storia di un
uomo che prende in moglie una prostituta. Si è molto discusso se l’esperienza
che racconta Osea sia stata reale o no, oggi molti esegeti propendono per il
sì.
Comunque, ci interroga il fatto che Osea desideri raccontare di Dio e
del rapporto di Dio con noi a partire dalla esperienza di un matrimonio travagliato,
di un amore tradito.
Il libro inizia con queste
parole:
Quando il Signore cominciò a parlare a Osea,
gli disse:
“Va’, prenditi in moglie una prostituta
,
genera figli di prostituzione,
poiché il paese non fa che prostituirsi
allontanandosi dal Signore” (Os 1,2).
E, ancora, all’inizio del
capitolo terzo:
Il Signore mi disse: “Va’ ancora, ama la
tua donna: è amata da un altro, è amata dal marito ed è adultera; come il
Signore ama i figli di Israele ed essi amano altri dei”.
Ebbene, forse non senza meraviglia e emozione, noi questa
sera abbiamo sentito risuonare in questa chiesa parole che accompagnano le
storie d’amore: la seduzione, il cuore, l’intimità, la gelosia, lo scambio dei
nomi più teneri, la fedeltà, l’incantamento. Diremmo in una parola la
“tenerezza”. Per raccontare Dio. E ne parliamo.
Ma per evitare di dare una immagine pallida alla parola
“tenerezza” dobbiamo accennare a che cosa sta prima nel libro. Prima delle
parole tenerissime. Prima c’è una ferita, la tenerezza ferita. Prima c’è la
storia di un amore tradito, prima c’è questo altalenarsi, oserei dire infinito,
di amore appassionato ma anche di gelosia, prima ci sono rimproveri, ci sono
minacce, ci sono castighi annunciati alla donna infedele.
A me piace pensare
che il Signore parli proprio attraverso la vita di Osea
1. 2 “Va, prenditi
in moglie una prostituta,
e genera figli di
prostituzione,
poiché il paese
non fa che prostituirsi
allontanandosi dal
Signore.”
Lui
lo fa. Sposa Gomer, figlia di Diblàim e nasce un figlio.
1.4“Chiamalo
Izreeèl” (Dio semina),
perché tra poco punirò
la casa di Ieu.”
E
lui lo fa.
Gomer
concepì di nuovo e partorì una figlia
1.6“Chiamala
Non-amata,
perché non amerò
più la casa di Israele,
non li perdonerò
più.”
Quando
ebbe svezzato “Non-amata” , Gomer concepì e partorì un figlio:
1.9 “Chiamalo Non
– popolo mio,
perché voi non
siete popolo mio
e io per voi non
sono.”
Eppure
subito dopo, il Signore si ricorda della promessa fatta ad Abramo e parla alle
generazioni future:
2.1 “Il numero
degli Israeliti
sarà come la
sabbia del mare,
che non si può
misurare né contare.
E si dirà di loro “Siete
figli del Dio vivente”.
I figli di Giuda e
i figli di Israele
si riuniranno
insieme”
2.3 “Dite ai
vostri fratelli “Popolo mio”,
e alle vostre
sorelle “Amata”.
E
poi di nuovo parla ai figli di Osea
e
parla con il linguaggio dell’amore tradito, nel quale però si intravede la
tenerezza. Parla come se pensasse al divorzio, usando la formula di divorzio usata
in Mesopotamia e forse anche in Israele.
2.4 “Accusate vostra made, accusatela
perché lei non è
più mia moglie
e io non sono più
suo marito!”
Ma
non cede all’odio. Anche nel linguaggio
del suo amore tradito, traspaiono ovunque note di tenerezza. Nella minaccia di denudare
l’amata, vediamo la minaccia di svergognarla, e ricordiamo Ester che si rifiuta
di farsi vedere ballare nuda per il re suo sposo. Ma vediamo anche la neonata
venuta nuda al mondo, che suscita tenerezza e desiderio di soccorrerla.
2.5
“Si
tolga dalla faccia i segni delle sue prostituzioni,
e i segni del suo
adulterio dal suo petto;
altrimenti la
spoglierò tutta nuda
e la renderò
simile a quando nacque
e la ridurrò a un
deserto, come una terra arida,
e la farò morire
di sete.
Dio
promette castighi, mette alla prova, vuole impedire di continuare sulla strada
che allontana da lui, vuole riprendere la sua amata con l’ardore del
fidanzamento e ricolmarla di beni. E noi sentiamo riecheggiare le vicende del
peregrinare del popolo nel deserto e troviamo anche il figliol prodigo che
torna e trova il Padre ad attenderlo. Il desiderio di Dio è che nessuno la
tolga più dalle sue mani, che non sono mani di padrone, ma mani
di innamorato.
2.8“Perciò ecco, ti chiuderò la strada con
spine,
la sbarrerò con
barriere
e non ritroverà i
suoi sentieri.
2.9 Inseguirà i
suoi amanti,
ma non li
raggiungerà,
li cercherà senza
trovarli.
Allora dirà “ Ritornerò
al mio marito di prima,
perché stavo
meglio di adesso.
2.10
Non capì che io le davo grano, vino nuovo
e olio
2.12
Scoprirò allora le sue vergogne
Agli occhi dei
suoi amanti,
E nessuno la
toglierà dalle mie mani.
2.14
Devasterò le sue viti e i suoi fichi,
2.15 La punirò per i giorni dedicati a Baal
Vorrei leggervi –dice Angelo Casati- alcuni tra i versetti che precedono immediatamente, senza cesure,
quelli letti questa sera, perché qui avviene un dirottamento:
“Scoprirò allora le
sue vergogne
agli occhi dei suoi
amanti
e nessuno la toglierà
dalle mie mani.
Farò cessare tutte le
sue gioie,
le feste, i noviluni,
i sabati,
tutte le sue
assemblee solenni.
Devasterò le sue viti
e i suoi fichi, di cui ella diceva:
“Ecco il dono
che mi hanno dato i miei amanti”.
Li ridurrò a una
sterpaglia
e a un pascolo di
animali selvatici.
La punirò per i
giorni dedicati ai Baal,
quando bruciava loro
i profumi,
si adornava di anelli
e di collane
e seguiva i suoi
amanti,
mentre dimenticava
me!
Oracolo del Signore.
Perciò…” (Os 2, 12-16)
Ecco, “perciò…”.
Che cosa ci aspetteremmo? Ci aspetteremmo: “Io la faccio finita, via da
me, io la incenerisco”. Secondo logica, secondo logiche umane, non potrebbe
essere che così! Ma ecco il dirottamento
dalle premesse:
“Perciò” – pensate –
“ecco, io la sedurrò,
la condurrò nel
deserto
e parlerò al suo
cuore”. (Os.12.16)
Un dirottamento, Dio va in tutt’altra direzione. Noi
questa sera siamo venuti ad assistere al dirottamento di Dio. Direi di più a un
dirottamente che, stando alle sue parole, fa parte della natura stessa di Dio.
Dio, per far diverso, fa appello, pensate, al fatto che lui è Dio. Sempre nel
libro di Osea, al capitolo undicesimo Dio dirà:
Non darò sfogo
all’ardore della mia ira,
non tornerò a
distruggere Efraim,
perché sono Dio e non
un uomo;
sono il Santo in
mezzo a te
e non verrò a te
nella mia ira. (Os 11, 9).
“Non darò sfogo all’ardore della mia ira…io sono Dio!”.
Stupefacente! Per poco che conosciamo le scritture sacre,
noi sappiamo che quando si tratta di Dio non c’è nulla di ovvio, siamo in vista
di dirottamenti.
Io non so se posso esprimermi così con voi, senza destare
insurrezione da parte degli esegeti. E’ come se Dio, stando alle parole del
profeta, tornasse indietro, si pentisse di aver fatto certi pensieri. So che
scandalizzo qualcuno. Ma nel libro dell’Esodo non sta forse scritto: ”Il
Signore si pentì” – Dio si pente! – “Il Signore si pentì del male che aveva
detto di fare al suo popolo” ? (32, 14).
Io non so se posso esprimermi così, ma leggendo il testo
quasi mi verrebbe da dire che Dio matura in sé questa consapevolezza: che a
ricondurre a sé la donna non saranno le sue minacce, non sarà l’aver fatto
terra bruciata intorno a lei, non sarà l’averla denudata, ma sarà la sua
tenerezza. Si ricorderà forse Dio – me lo chiedo – che nel giardino degli
inizi, proprio nel giorno della nudità degli umani, proprio lui, con infinita
tenerezza cucì all’uomo e alla sua donna
tuniche di pelle e li vestì”?
Chissà, me lo chiedo, se questa è l’immagine che ci è
rimasta di Dio. E chissà se questa è l’immagine che noi abbiamo lasciato di Dio
nella storia, se questa è l’immagine che
lasciamo oggi nella storia, l’immagine di un Dio innamorato. Di un Dio
innamorato o di un Dio padrone?
Noi veniamo da una stagione – alcuni di voi ricordano –
in cui si parlava della morte di Dio. Vi confesso che più volte mi sono
sorpreso a chiedermi – e mi sembrava di essere in buona compagnia, nella buona
compagnia del Concilio – se gli uomini del mio tempo cercavano di mettere a
morte Dio, o non forse, senza
saperlo, una brutta immagine di Dio, che avevano da noi
ereditato.
Ma ritorniamo al testo, ritorniamo alla buona
immagine di Dio, alla buona notizia:
Dopo
le minacce, Dio prosegue esprimendo il
suo desiderio:
la
disgrazia (Acor) verrà trasformata in amore corrisposto
2.16
“Perciò, ecco, io la sedurrò,
la condurrò nel
deserto
e parlerò al suo
cuore”
2.17
e trasformerò la valle di Acor in porta
di speranza.
Là mi risponderà
come nei giorni
della sua giovinezza,
come quando uscì dal paese d’Egitto.
Dice Angelo Casati:
Ecco la sedurrò,
la condurrò nel deserto
e parlerò al suo cuore.
Là risponderà
come nei giorni della sua giovinezza,
come quando uscì dal paese d’Egitto. (Os. 2,16-17)
Leggevo e pensavo: forse
è vero che ci mancano i giorni della nostra giovinezza.
Forse è vero che il cuore denuncia qualche stanchezza e che la vita –- la mia vita – si è come appesantita, ha perduto
d’intensità, di vibrazioni, di entusiasmo. E’ avvenuto come un logoramento, un
invecchiamento. Forse è vero. E che cosa sperare? Che cosa augurarci se non che Dio ci conduca nel deserto?
Forse deserto è
questo nostro essere nudi: l’aver corso mille strade, l’aver bussato a mille
porte, per poi fissare sgomenti le
nostre mani vuote. Eppure – voi lo sapete – non mi basta che qualcuno mi rinfacci la
stoltezza, la sprovvedutezza del mio correre vano o del mio prostituirmi a
idoli vuoti, ai miti vani del tempo. Non mi bastano – voi lo sapete – non mi
bastano le prediche che mi dicono: “l’hai voluto tu. Ora lo paghi questo tuo affannarti dietro mille
cose”. Non mi bastano gli uomini della legge che fanno a gara a sbattermi
in faccia il deserto, il deserto del cuore. Questi discorsi mi lasciano più
triste e più vuoto di prima.
La speranza è in questo Dio che, nonostante tutto, mi attira, come innamorato,
nel deserto. E nel deserto ha la tenerezza di chi parla al cuore.
“Parlare al
cuore”: siamo lontani dunque da un
parlare categorico, un parlare che ti fa stare nella paura, nella sudditanza,
ti fa stare in un rapporto di puro scambio: a tanto tanto.
Parlare al cuore o,
meglio, parlare “sul cuore” – così dice il testo ebraico – “sul
cuore”, che è il parlare tenerissimo degli innamorati. Sono tanti infatti
quelli che ti parlano. Sono meno, molto meno, quelli che parlano al cuore. E
sono pochi, li conti, quelli che parlano sul tuo cuore. Ed è l’unica cosa che
ti cambia. Non ti cambiano le accuse, i rimproveri, le minacce. Ti cambia la
fiducia di uno che ti usa tenerezza. E Dio è di questi. Lascia che ti parli “sul cuore”.
2.18
mi
chiamerai “Marito mio” ,
e non mi chiamerai
più “Baal mio padrone”.
E ancora è scritto
Le toglierò dalla bocca
I nomi dei baal
E non saranno più chiamati per nome. (Os. 2.19)
Ecco, Dio ti libera dai baal, cioè
da coloro che pretendono di esercitare
su di te un diritto di proprietà. Non solo non soffoca la libertà Dio, non solo
è uno che la libertà la onora e la dilata. Non solo, ma è un Dio
che non accetta che altri assumano su di te l’immagine di un padre-padrone,
l’immagine di un baal. Nessuno! In nessun ambito,
né nella famiglia, né nella società, né nella chiesa.
“Ba’al”, in
ebraico, significa signore nel senso di “padrone”, uno che ti fa da
padrone, uno che ti compra con il pane, con l’ambizione, con il miraggio del
potere e ti fa schiavo, ti fa cadere alle sue ginocchia. “Tutte queste
cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai” (Mt 4,9) dirà a Gesù il
satana nel deserto. Dio ci tolga dalla bocca i nomi dei nuovi baal, che
popolano a dismisura, tronfi e arroganti, le nostre strade. Dio ci faccia
vigilanti. Oggi, non meno di ieri, è tempo di “vitelli d’oro”. E
stupisce come al vitello d’oro rimanga inalterata, anzi quasi maggiorata, la
forza della seduzione.
Ti chiedi come non
avvenga che si passi, di bocca in bocca, un grido d’allarme, un grido che ci
faccia tutti vigilanti e resistenti, tanto e tale è il saccheggio della
libertà, quella interiore, che si profila all’orizzonte. Che cosa ci ha a tal
punto narcotizzati da non vedere, da non capire, da non pensare? Siamo anche
noi arrivati a questa deriva di rimpiangere cipolle e cocomeri d’Egitto,
dimenticando che i nostri padri, i resistenti, avevano indubbiamente meno cose
di noi, ma custodivano gelosamente la fierezza della libertà?
Io non so se abbiamo sempre misurato quanto questa
cattiva interpretazione della grandezza abbia creato distruzioni e disarmonie
in noi, nei nostri rapporti sulla terra.
Questa volontà di dominio, questo voler essere come Dio,
ha fatto del giardino, del giardino dell’Eden, un deserto, ha fatto e sta
facendo, del giardino della terra un deserto.
Solo se ci convertiremo veramente dal dio padre-padrone
al dio della tenerezza, se, fedeli alla sua vera immagine, ci convertiremo
dalla logica del dominio alla logica della tenerezza, in tutti gli ambiti,
famiglia, lavoro, chiesa società vedremo rifiorire noi stessi e la terra.
Vorrei leggere in questa luce i versetti che seguono
direttamente il nostro testo nel rotolo di Osea:
2.20 In quel tempo farò
per loro un’alleanza
con gli animali
selvatici
e gli uccelli del
cielo
e i rettili del
suolo;
arco e spada e guerra
eliminerò dal paese,
e li farò riposare
tranquilli.
2.21 Ti farò mia
sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel
diritto,
nell’amore e nella
benevolenza,
ti farò mia sposa
nella fedeltà
e tu conoscerai il
Signore.
Il
Signore cancella il passato adultero, e a seguito del suo perdono, avviene la
conversione, e inizia un tripudio in tutta la creazione, che sarà rinnovata. Una
nuova creazione. Israele diventa una creatura nuova, sposata dal Signore, che
si “fidanzerà” con lei, dice il verbo usato,
come si fa con una vergine.
C’è
esultanza in queste parole del Signore. Sposerà Israele, il suo popolo
nella giustizia e
nel diritto. Questa
sarà la dote che il fidanzato offre alla promessa sposa: la disposizione
interiore per essere fedele d’ ora in poi alla nuova alleanza. Il Signore
stipula un’alleanza nuova per sempre, sarà fedele per sempre
Sposerà
Israele nell’amore e nella benevolenza,
porterà
in dote anche l’amore , la capacità di amare (hesed). L’amore fedele di Dio, chiede infatti di essere ricambiato e corrisposto ( cf. “mi ami tu?” ) con tutto il cuore, con l’amiciziafiduciosa, l’abbandono, la tenerezza,
la pietà, l’ascolto gioioso della volontà di Dio, la carità verso il
prossimo. Questo è l’ideale dei
Hasidìm.
2.22
ti farò mia sposa nella fedeltà
e tu conoscerai il
Signore.
Il
Signore porta in dote anche la fedeltà e la conoscenza , quella che nasce dall’unione
intima.
2.23 E avverrà, in
quel giorno
– oracolo del Signore
–
io risponderò al
cielo
ed esso risponderà
alla terra;
la terra risponderà
al grano,
al vino nuovo e
all’olio
e questi
risponderanno a Izreèl.
Io li seminerò di
nuovo per me nel paese (Os 2,18-22).
Passare dalla logica del dominio alla logica della tenerezza è il
segreto per riportare armonia sulla terra. Nel brano del profeta Osea mi
colpiva la bellezza del verbo “rispondere”. La voce chiama, e c’è una risposta.
Quando accade nella vita questo corrispondersi nasce l’armonia del mondo. Il
vero male, la vera disgrazia accade quando avviene un grido, c’è una domanda, e non c’è risposta.
Che cosa possiamo desiderare, per che cosa possiamo
impegnarci se non perché chi chiama abbia risposta e questa armonia, coinvolga,
avvolga la terra e la creazione? E’ scritto: “Io risponderò al cielo, il cielo
risponderà alla terra e la terra risponderà con il grano, il vino nuovo e
l’olio”.
Allora nasce, fiorisce il giardino. Dal deserto al
giardino. Il giardino nasce dalla
tenerezza.
2.25 Io li seminerò di
nuovo per me nel paese
e amerò Non-amata
e a Non-popolo-mio
dirò “Popolo-mio”
ed egli mi dirà: “Dio mio”.
E
conosciamo di nuovo la tenerezza di Dio per i suoi figli, rinati, seminati,
trasformati; il suo desiderio e la nuova promessa di amore reciproco, di
tenerezza reciproca, di appartenenza
reciproca. Quella tenerezza , espressa nell’aggettivo “mio”, che fa
riconoscere e dire “Popolo-mio” e “Dio-mio”.
E
ci viene in mente che l’incredulo Tommaso.
Toccato dalla tenerezza di Gesù: “Gli rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio” ” (Gv.20.28)
Il
Capitolo 3 parla della forza dell’amore
che resiste.
3.1
“Il Signore mi disse: va ancora, ama la
tua donna”.
Osea
riscatta sua moglie dall’attuale padrone e dal santuario dove si è fatta schiava sacra. Paga il riscatto di una schiava.
Dio
prospetta sogna e promette un rapporto di reciprocità
3.3
“Per molti giorni starai con me , non ti
prostituirai e non sarai di alcun uomo. Così anch’io mi comporterò con te”
Il
capitolo 4 dice come la situazione attuale sia molto diversa da quella che vuole
il Signore, da quella che lui sogna, e come Osea chiami ad ascoltare la parola
del Signore.
4.1 Ascoltate la parola del Signore, o figli
d’Israele,
perché Il Signore
è in causa
con gli abitanti
del paese.
Non c’è infatti
sincerità né amore,
né conoscenza di
Dio nel paese.
4.3
Per questo è in lutto il paese
E chiunque vi
abita langue,
insieme con gli
animali selvatici,
e con gli uccelli
del cielo;
persino i pesci
del mare periscono.
4.4
“Ma
nessuno accusi, nessuno contesti.
Contro di te,
sacerdote, muovo l’accusa,
4.6 “perisce
il mio popolo per mancanza di conoscenza.
“Poiché tu rifiuti la conoscenza,
rifiuterò te come
sacerdote;
hai dimenticato la
legge del tuo Dio
e anch’io dimenticherò
i tuoi figli.
Anche
qui, nell’accusa al sacerdote, c’è una nota di tenerezza in quel “tuo”. Hai
dimenticato la legge del tuo Dio.
Noi
non siamo chiamati a giudicare, anzi ognuno sia pronto ad accettare l’accusa di
Dio, riferita alla mancanza di quella
conoscenza intima che entra a far parte dell’intimo dell’uomo, come rivolta a
sé. (Luciano Monari, Vescovo di Piacenza- Bobbio, Bose 2001).
4.9.
Il popolo e il sacerdote avranno la
stessa sorte;
li punirò per la
loro condotta
e li ripagherò
secondo le loro azioni.
Mangeranno, ma non
si sazieranno,
si prostituiranno,
ma non aumenteranno.
4.13
Sulla cima dei monti fanno sacrifici
E sui colli
bruciano incensi.
E non sarà che alla Chiesa di oggi, e quindi a ciascuno
di noi, Dio chieda meno esibizione, meno teatro, meno organizzazione, meno
dichiarazioni, meno recite e più vita, più sincerità, più vicinanza?
4.16
E poiché come giovenca ribelle si ribella
Israele,
forse potrà
pascolarlo il Signore come agnello in luoghi aperti?
Il
capitolo 5 dice di tempi bui. Sacerdoti, notabili e re conducono il popolo alla
rovina
5.6
Con le loro greggi e i loro armenti
andranno in cerca
del Signore,
ma non lo
troveranno:
egli si è
allontanato da loro.
5.10
I capi di Giuda sono diventati
come quelli che
spostano i confini,
Presi
da sete di potere e di dominio, combattono guerre fratricide. E il Signore si
adira.
5.14
Io sarò come un leone per Efraim,
come un leoncello
per la casa di Giuda.
Io li sbranerò e
me ne andrò,
porterò via la
preda e nessuno me la toglierà.
Me ne tornerò alla
mia dimora,
finché non
sconteranno la pena
e cercheranno il
mio volto,
e ricorreranno a
me nella loro angoscia.
6.
Il profeta immagina però una conversione, un ritorno del popolo al Signore
6.1
Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà
Dopo due giorni ci
ridarà la vita
e il terzo ci farà
rialzare.
Da
Tertulliano in poi la tradizione cristiana ha collegato questo testo alla
Risurrezione. Ci fascerà: come una madre
fascia un bambino, come si fasciano le ferite, come si fasciano i corpi dei morti?
6 Ma il pentimento del popolo dura poco e il
Signore è deluso,
vuole
l’amore, vuole la conoscenza di Dio più degli olocausti.
6.4
“Il
vostro amore è come una nube del mattino
Come la rugiada
che all’alba svanisce.
6.5
Per questo li ho abbattuti per mezzo dei
profeti,
li ho uccisi con
le parole della mia bocca
e il mio giudizio
sorge come la luce:
6.6
Poiché voglio l’amore e non il
sacrificio,
la conoscenza di
Dio più degli olocausti.
7.
Non tornano a lui e il Signore si adira ancora
7.10
Non ritornano al Signore, loro Dio,
e, malgrado tutto,
non lo ricercano
7.11 Efraim è come
un’ingenua colomba,
priva d’
intelligenza;
ora i suoi
abitanti domandano aiuto all’Egitto,
ora invece corrono
verso l’Assiria.
E
minaccia castighi.
7.13
Disgrazia per loro,
perché si sono
allontanati da me!
Distruzione per
loro,
perché hanno agito
male contro di me.
Non gridano a me
con il loro cuore.
Il
capitolo 8 parla di un periodo buio di disordine politico e di idolatria.
8.7
E poiché hanno seminato vento
Raccoglieranno
tempesta
8.9
Sono come un asino selvatico, che si aggira solitario.
8.11
Efraim ha moltiplicato gli altari,
ma gli altari sono
diventati per lui
un’occasione di
peccato.
8.13
Offrono sacrifici
E ne mangiano le
carni,
ma il Signore non
li gradisce;
ora ricorda la
loro iniquità,
chiede conto dei
loro peccati:
dovranno tornare
in Egitto.
Egitto
è anche l’Egitto interiore, la terra delle nostre schiavitù. E’ il mondo della
“caduta”. Di esso parla Annick de Souzenelle nel libro “L’Egitto interiore, le
10 piaghe dell’anima” Servitium, 2009.
Per
chi fosse interessato, c’è in rete, con questo titolo, un commento di Ivano
Caminada in www.darsipace.it
9.3
Non potranno restare nella terra del
Signore,
ma Efraim tornerà
in Egitto
9.
7 Sono venuti i giorni del castigo.
Israele lo sappia.
Il profeta diventa
pazzo,
l’uomo ispirato
vaneggia
A causa delle tue
molte iniquità.
Il
Signore ricorda il suo amore e le sue cure per il suo popolo, pronto a
perdonare
9.10
Trovai Israele come uva nel deserto,
ebbi riguardo per
i vostri padri,
come per i primi
fichi quando iniziano a maturare.
Ma
essi non lo seguono
E
la
prospettiva conseguente all’allontanamento dal Signore è terribile
desolazione,
è non vita.
9.11La
gloria di Efraim volerà via come un uccello,
non più nascite, nè
gravidanze, né concepimenti.
9.16
Efraim è stato percosso,
la loro radice è
inaridita,
non daranno più
frutto.
Anche se generano,
farò perire i cari
frutti del loro grembo.
E
poi di nuovo ricordo affettuoso e nostalgico,
rimpianto,
esortazione, minaccia da parte di Dio
10.1 Vite
rigogliosa era Israele,
che dava sempre il
suo frutto;
ma più abbondante
era il suo frutto,
più moltiplicava
gli altari.
10.2
Il loro cuore è falso,
orbene,
sconteranno la pena!
10.11
Ma io farò pesare il giogo
sul suo bel collo
attaccherò Efraim
all’aratro
e Giacobbe
all’erpice.
10.12
Seminate per voi secondo giustizia
e mieterete
secondo bontà;
dissodatevi un
campo nuovo
perché è tempo di
cercare il Signore
finché Egli venga
e diffonda su di
voi la giustizia.
La
pena contiene anche un’esortazione e una promessa
che
si avvererà: se accetteremo il giogo, esso diventerà leggero ( Il mio giogo è
leggero Mt. 11-30).
Se
dissoderemo il terreno arido del nostro cuore e ne faremo un campo allora
sapremo accogliere il seme e mieteremo.
Gesù racconterà la parabola del Buon Seminatore.
Perché
il terreno non dissodato resta arido, ha bisogno del seme.
E
il seme ha bisogno del campo, per germogliare e dare frutto. Terreno e seme
sono l’uno per l’altro ( Mt. 13, 1-23; Lc.8,5-15) (Franco Giulio Brambilla, Incontro coscienza
e Parola, Ambrosianeum, Milano, 14.2.2020)
E’
questa la prospettiva della risposta vicendevole, dopo essersi vicendevolmente
cercati.
Poi
ancora parole terribili:
10.14
Un rumore di guerra si alzerà contro il
tuo popolo
E tutte le tue
fortezze saranno distrutte.
Come a Salmàn
devastò Bet-Arbél
nel giorno della
battaglia
In cui la madre fu
sfracellata sui figli
E
poi quelle più tenere, di una tenerezza infinita
11. Quando Israele era fanciullo,
io l’ho amato
e dall’Egitto ho
chiamato mio figlio.
Ma più li chiamavo
Più si
allontanavano da me.
A Efraim io
insegnavo a camminare
Tenendolo per
mano,
ma essi non
compresero
che avevo cura di
loro.
Io li traevo con
legami di bontà.
Con vincoli d’amore,
ero per loro
come chi solleva
un bimbo alla sua guancia,
mi chinavo su di
lui
per dargli da
mangiare.
Il
popolo è di dura cervice.
Eppure
il Signore non lo può abbandonare,
si
commuove e ha compassione.
Non
lo distruggerà, perché è Dio, non uomo.
11.7
Il mio popolo è duro a convertirsi:
chiamato a
guardare in alto,
nessuno sa sollevare
lo sguardo
Come potrei
abbandonarti Efraim,
come consegnarti
ad altri, Israele?
11.8 Il mio cuore si commuove dentro di me,
il mio intimo
freme di compassione.
11.9 Non darò sfogo all’ardore della mia ira,
non tornerò a
distruggere Efraim,
perché sono Dio e
non uomo;
sono il santo in
mezzo a te
e non verrò da te
nella mia ira.
11.10 Seguiranno il Signore
Ed egli ruggirà
come un leone:
quando ruggirà,
accorreranno i
suoi figli dall’occidente,
accorreranno come
uccelli dall’Egitto,
come colombe
dall’Assiria
e li farò abitare
nelle loro case.
Oracolo del
Signore.
Il
popolo prosegue nelle menzogne e nella frode
e
il Signore si ricorda di Giacobbe.
12.3 Il
Signore è in causa con Giuda
e punirà Giacobbe
per la sua condotta,
lo ripagherà
secondo le sue azioni.
Egli nel grembo
materno soppiantò il fratello
E da adulto lottò
con Dio,
lottò con l’angelo
e vinse,
pianse e domandò
grazia.
Vorrei
capire meglio questo passo, su cui molti si sono interrogati.
Sono
stata sempre colpita dal racconto della nascita di Giacobbe che teneva in mano il calcagno del fratello, con
cui litigava già nel grembo di sua madre. Dal racconto del suo essere benedetto dal padre al posto
del fratello, grazie all’aiuto della madre. Ed ero giunta a pensare che
volessero dire una predilezione di Dio per il “minore”, per il “piccolo”, per
il “mite”.
Anche
la lotta con l’angelo, che si chiude con una benedizione e con la zoppia di
Giacobbe, mi ha fatto molto pensare, l’avevo letta come lotta interiore contro
la propria presunzione, fino a rendersi conto di essere limitato, fino ad
arrendersi al Signore e a chiedere di essere benedetto così, nel proprio essere
zoppicante.
Il
commento che ho trovato in nota nella Bibbia di Gerusalemme, 2009, dice che gli
episodi della vita di Giacobbe sono ripresi da Osea nei loro aspetti negativi:
peccatore fin dal seno materno, Giacobbe
continua a peccare nell’età adulta.
Mi
piace pensare, ma senza presunzione di avere capito, che forse in Osea il Signore
ricorda e tiene in cuore quegli eventi della vita di Giacobbe e li ripensa e li
riconsidera, mentre guarda come il
popolo si comporta ora e vede come si comporta male, voglioso di essere grande,
forte, dominatore.
Per
chi fosse interessato segnalo l’elaborato del biennio filosofico teologico
della Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna, che si trova in rete, “La
lotta di Giacobbe” di Michael Giovannini, seguito nella tesi dal Prof. Giuseppe
Scimè, che presenta spunti esegetici dall’antica tradizione giudaico cristiana
su Genesi 32, 23-33.
Eppure
continua ad amarlo
12.10
Eppure io sono il Signore tuo Dio,
fin dal paese
d’Egitto.
Ti farò ancora
abitare sotto le tende,
come nei giorni
dell’incontro del deserto.
Io parlerò ai
profeti,
moltiplicherò le
visioni,
e per mezzo dei
profeti parlerò con parabole”.
E
anche quando promette castighi e vede avvicinarsi la rovina, fa intendere che è
a fin di bene e che il suo amore è più forte delle resistenze che gli vengono
opposte
3.6
spezzerò la corazza del loro cuore
14.1
Samaria sconterà la sua pena,
perché si è
ribellata al suo Dio.
Periranno di
spada,
saranno
sfracellati i bambini;
le donne incinte
sventrate.
Osea
chiama alla conversione il popolo, suggerisce parole di pentimento:
14.4
non cavalcheremo più su cavalli,
né chiameremo più
“dio nostro”
l’opera delle
nostre mani,
perché presso di
te l’orfano trova misericordia”
e
mi viene da pensare alla caduta da cavallo di Paolo
E
sull’ira, sul dolore, sul rimpianto, predomina nel Signore la compassione, la
misericordia, la tenerezza amorosa, per questi orfani.
14.5
Io li guarirò dalla loro infedeltà,
li amerò
profondamente,
poiché la mia ira
si è allontanata da loro.
14.6
Sarò come rugiada per Israele;
fiorirà come un
giglio
14.8
Ritorneranno a sedersi alla mia ombra,
faranno rivivere
il grano,
fioriranno come
vigne,
saranno famosi
come il vino del Libano.
14.9
Che ho ancora in comune con gli idoli, o
Efraim?
Io l’esaudisco e
veglio su di lui;
io sono come un
cipresso sempre verde,
il tuo frutto è
opera mia. 14.10 chi è saggio comprenda
queste cose,
chi ha
intelligenza le comprenda;
poiché rette sono
le vie del Signore,
i giusti camminano
in esse,
mentre i malvagi
v’inciampano.
Il
Signore promette che ci siederemo alla sua ombra e che allora ci prenderemo
cura della terra.
Dice
Annick de Souzenelle : “ci è permesso di leggere la storia dell’uomo come la
storia della lenta formazione dell’Adam (l’uomo totale) in un grembo cosmico di
cui la nostra terra sarebbe come la placenta legata a Dio in una immensa
funzione di maternità”
(L’Egitto
Interiore o le dieci piaghe dell’anima, pag.21)
Mi
piace pensare ad Osea come al profeta dell’amore di Dio Padre e Madre per i
suoi figli.
Dice Angelo Casati:
Alla mente mi ritorna una pagina folgorante dello
scrittore Ennio Flaiano, là dove abbozzava
un ipotetico ritorno di Gesù sulla terra, un Gesù, infastidito da giornalisti e
fotoreporter, come sempre invece vicino ai drammi e alle fatiche dell’esistenza
quotidiana:
“Un uomo” -scrive- “condusse a Gesù la
figlia ammalata e gli disse: “Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu
la ami”. Gesù baciò quella ragazza e disse: “In verità questo uomo ha
chiesto ciò che io posso dare”. Così detto, sparì in una gloria di luce,
lasciando le folle a commentare quei miracoli e i giornalisti a
descriverli”.
A convertirci – il
profeta Osea ce lo ricorda – non sono certo i segni clamorosi, a convertirci è
la tenerezza di Dio. La tenerezza ferita.