Romero, un nome da ricordare
Il 24 marzo 1980 veniva ucciso a San Salvador mons. Oscar Romero.
In occasione del 40° anniversario del martirio si è tenuto l’incontro “Ho udito il grido del mio popolo” con l’intervento di Anselmo Palini.
La registrazione audio dell’incontro è disponibile a questo link.
Riportiamo il ricordo di Paolo Giuntella pubblicato nel primo numero della rivista “Il Margine” (n.1 /1981).
di Paolo Giuntella
Oscar Arnulfo Romero: un nome, è asprissimo doverlo ammettere, già dimenticato, inciso indelebilmente in poche carni. Il suo paese e i suoi contadini gli sopravvivono devastati, fra i cadaveri calpestati dai militari, dai miliziani. Eppure è stato un vescovo ucciso in chiesa al momento dell’elevazione: ma i primi a dimenticarlo sono già i cattolici, la sua Chiesa cui fu sempre serenamente fedele, fino al martirio.
Conobbi Romero a Roma, in una disadorna saletta di pensionato
cattolico, nella quale l’intervistai. Un uomo vivace, che portava
qualche segno indio nel volto, e che ricordava La Pira nei gesti
espressivi e rapidi, in quelle mani mai ferme che accompagnavano, quasi a
volerle illustrare, le parole. Non dimenticherò mai i suoi occhi, così
neri e intensi. Un piccolo uomo energico, così diverso dalla fragilità
profetica di Helder Camara. Raccontava con naturalezza, con il sorriso
che può nascere solo dopo la contemplazione «attiva» della croce, la
scelta della sua Chiesa, la scelta dei poveri come scelta pastorale
anzitutto. Ed anche la sua testimonianza nonviolenta, aveva qualcosa di
diverso dalla cultura gandhiana di Luther King, Danilo Dolci e dello
stesso Esquivel. La sua era una scelta nonviolenta «pastorale», cioè
popolare, senza fronzoli eccessivi e memorie, sia pure nobilissime, di
esperienze diverse. Una sorta di nonviolenza meno «spiritualista», più
latina.
La Chiesa per Romero non poteva che scegliere in una direzione.
Per essere la Chiesa del popolo, per stare con il popolo. Questa, certo, diventava anche una scelta politica, un giudizio sul regime, una scelta di campo. Ma nasceva da una lettura pastorale dei segni dei tempi. Questa forse la diversità. Insomma Romero non voleva assolutamente essere un pastore politico. Ma un pastore. E perciò, perché pastore, nella crudeltà dello sfruttamento del suo popolo, la sua azione diveniva «politica».
Soffrire, morire con il popolo
Mi pare, ripensando a lui, che egli abbia messo in pratica con coerenza le parole di Maritain: «Prima di fargli del bene, prima di lavorare per il suo bene, prima di assecondare o meno la politica di questi o quegli altri che ne esaltano il nome e gli interessi, prima di giudicare in coscienza il bene e il male delle dottrine e delle forze storielle che lo sollecitano o di farne una scelta — o forse anche di rifiutarla in certi casi eccezionali — o necessario scegliere di esistere con il popolo, di soffrire con lui, assumendone sofferenza e sorte». Romero, scegliendo con la sua Chiesa di esistere con, di soffrire con il suo popolo, ne ha assunto appunto, a livello fisico e simbolico, la sofferenza e In sorte. Il suo popolo è calpestato e crocifisso, ed egli ha gridato questa verità fino a quando anche lui è stato crocifìsso con i chiodi dei mitra.
Eppure lo stiamo dimenticando. Pensate a quanta diversa sorte hanno avuto, attraverso le macchine dei mass media (che hanno questa terribile libertà di selezionare, rinchiudere e gonfiare le notizie) i «miti» di Martin Luther King, «Che» Guevara o Albert Schweitzer.
Romero è già inghiottito, con la complicità, per dirla con le parole di un altro grande dimenticato — il premio nobel per la pace 1980, il cattolico Alfonso Perez Esquivel, già «occultato», prima ancora della consegna ufficiale e mondana del riconoscimento — con la complicità, sì diceva del «silenzio dei buoni», del silenzio dei fratelli nella fede.
O forse o il destino dei «santi» dei poveri. Come il nobel della pace sudafricano Albert Luthuli, perso nell’oblio della storia, o il nobel della pace irlandese, ex militante dell’ Ira convertito alla nonviolenza, Sean Mc Bride, o come l’«oscuro» indiano Vinoba. C’è insomma anche una discriminazione dei buoni, dei martiri, che l’industria della retorica, l’Imperialismo della commozione dei ricchi, amministrano insieme al disordine costituito della fame, delle libertà e dei sogni repressi, delle utopie frantumate dei campesinos condannati dalle multinazionali e dallo spìrito di Yalta.
Un giuramento di fedeltà
E no. Noi ci dobbiamo ribellare. Anche alla saggezza dei nostri padri e maestri. Anche allo scetticismo verso il terzomondismo nei nostri maestri riformisti, sanamente realisti, cautamente progressisti.
Ci dobbiamo ribellare all’oblio. Diventare ostinati annunciatori, ostinati ripetitori di nomi, sin quasi alla nausea ed alla rabbia.
L’ho giurato nelle mani dì Romero. Lo giuro ancora quando ritrovo tra
le mie carte il suo piccolo biglietto da visita: Oscar Arnulfo Romero,
Arcibisbo. Arcibisbobado de San Salvador. «La mia porta è sempre aperta
per te, vieni». Giuriamolo insieme. Fino alla noia.
Perché non si
stenda su lui, su loro, il velo fradicio dell’oblìo. L’effetto Reagan
già comincia sentirsi sulle carni dei suoi campesinos.
E i nostri ragazzi già dicono «Romero, chi era costui ?» perché tanti nomi non ci dicono più nulla.
Nel suo ultimo scritto, prima di morire, trent’anni fa, Emmanuel Mounier vergava il suo testamento: «fidelité». Fedeltà. E’ il giuramento che noi dobbiamo stabilire alla fine di questo maledetto e splendido, e maledetto ancora, decennio per il nostro avvenire.
Fedeltà. Fedeltà, padre vescovo Romero, volto futuro della Chiesa di
Dio. Fedeltà padre vescovo Romero, «segno» del militante cristiano.
«Fonderanno
i loro bazooka in trattori, i loro mitra in motozappe. Un popolo non
alzerà più cannoni contro un altro popolo. Miliziani, squadrones de la
muerte, militari non si eserciteranno più nell’arte della guerra».
Que viva Romero.