Eutanasia e fine vita nella relazione medico-paziente

L’intervento che segue è una riflessione sviluppata sul tema dell’eutanasia  dalla dott.ssa Antonietta Cargnel, già primario di Malattie Infettive all’Ospedale Sacco di Milano e presentata nel corso di una serata il 12 ottobre 2021.

Un tema come quello di stasera è molto delicato; per affrontarlo bisognerebbe avere molto più tempo. Infatti, esso tocca numerosi capitoli: l’autonomia della persona, l’idea di salute (siamo passati dalla definizione di salute come assenza di malattie a quella nel 1948 dell’OMS che parla di salute come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non solo assenza di malattie o infermità), l’accanimento terapeutico, le DAT, le caratteristiche di una legge democratica, i problemi etici ecc. ecc..

Questa sera, non affronterò tutti questi temi. Dirò solo una piccola parola sul problema dell’autonomia del soggetto, qualcosa a riguardo dell’accanimento terapeutico, affronterò il tema dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, tutti temi che ritengo molto importanti per affrontare il tema dell’eutanasia.
A riguardo dell’autonomia vorrei solo ricordare che essa non è assoluta, ma storicamente segnata dal nostro rapporto con gli altri. Non è necessario ricordare che la nostra esperienza ci fa confrontare con loro fin dall’inizio della nostra esistenza: noi abbiamo ricevuto la vita da altri ed essa si rapporta con gli altri: la nostra identità personale è costitutivamente relazionale. La nostra libertà è quindi responsabile di fronte agli altri che ci precedono e con i quali siamo chiamati a vivere e a collaborare. Tutto questo è molto importante ricordarlo anche a riguardo delle decisioni del fine vita.
Vorrei questa sera riflettere sul tema dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, centrale a mio avviso, per parlare del fine vita. Quest’alleanza esige innanzitutto la presenza di una relazione vera tra due persone. Nella relazione io sono interpellato come donna o uomo libero; ciò comporta, se si vuole istituire una relazione autentica, che anche l’altro sia riconosciuto e rispettato come essere «libero», capace di autonomia.
Il rapporto medico-paziente, rispetto a un recente passato, è oggi profondamente cambiato, passando da una concezione paternalistica dello stesso, a modalità di rapporto che tenga fortemente conto dell’autonomia del paziente. Un tempo, infatti, tale rapporto si fondava sulla fiducia del malato nei confronti del proprio medico; egli prescriveva gli esami da eseguire, decideva le terapie e dava le disposizioni al paziente e alla sua famiglia in ordine alla cura. Era il medico, cioè, a prendere le decisioni per il paziente così come fa un adulto nei confronti di un bambino. Le sue preferenze, il giudizio sulla qualità di vita e sul contesto sociale, inteso come religione e famiglia erano considerate in secondo piano o assolutamente ignorate, così come pure era ignorato il rapporto con la società.
Ora, nell’attuale contesto sociale, l’alleanza tra medico e paziente chiede di salvaguardare quelli che, secondo Emanuel E J e coll., potrebbero essere considerati gli elementi ideali del rapporto medico-paziente: la possibilità di scelta, la competenza, la comunicazione, la compassione, la continuità, il non conflitto di interesse.
In particolare, nella fase terminale di una malattia cronica o al momento di una morte avvenuta improvvisamente o, comunque, quando essa si avvicina è molto importante che quest’alleanza custodisca e realizzi il desiderio del morente, maturato all’interno di questa relazione.
In essa occorre che il tema della comunicazione sia fortemente valorizzato. La legislazione italiana, giustamente, impone la richiesta del consenso informato prima di alcune procedure diagnostiche o terapeutiche particolari; tuttavia, una relazione medico-paziente che voglia essere una alleanza non può accontentarsi di ciò. Informare il paziente non si limita, infatti, a spiegargli il percorso diagnostico e terapeutico, a dirgli la verità sul suo stato di salute, nei modi e nei tempi che egli riuscirà a sopportare, ma richiede che quest’informazione scorra in due direzioni, diventi, cioè, reciproca. Occorre, quindi, saper ascoltare le richieste e i bisogni che il paziente, talvolta in modo inespresso fa al proprio curante; porre attenzione a tutti quei messaggi che vengono trasmessi attraverso la comunicazione anche non verbale. Tutto ciò richiede capacità di compassione (cum patior = portare, sopportare insieme). “La virtù della compassione si sviluppa come disposizione favorita da un sentimento spontaneo di vicinanza e di empatia che spinge ad assumere il punto di vista dell’altro”. Essa, nella tradizione cristiana, “svela un circolare e costitutivo rapporto tra amore del prossimo e amore di se stessi: non si può sapere davvero che cosa vuol dire amare se stessi se non amando il prossimo e non si può veramente amare il prossimo se non si è capaci di amare se stessi. Si ama l’altro allo stesso modo in cui si “ama” se stessi: addirittura l’esperienza dei propri bisogni e, più generalmente, di sé, diventa punto di partenza per il compimento della legge e i profeti. Il sentimento spontaneo della compassione è una forma del farsi prossimo ed esce dalla sua ambiguità, soltanto in quell’agire libero e intelligente, sapiente e prudente, che non si sbarazza dell’altro, ma si fa carico di lui, lasciandosi implicare nel rapporto concreto che cerca il suo bene e testimoniandogli una cura – assai concreta! – per la sua vita mortale. Si tratta quindi molto di più di un sentimento interiore (un “sentirsi”), bensì di un modo inizialmente spontaneo di conoscere e di incontrare l’altro che ci viene incontro. La compassione, quindi, è “una forma di relazione in cui il dare e il ricevere si attivano reciprocamente”.
Un altro aspetto assai importante della relazione medico-paziente è quello della continuità, del patto di non abbandono. Chi si rivolge ad un medico e gli chiede di essere preso in carico, deve poter sapere che il curante non lo abbandonerà; questo diventa ancor più importante se il paziente è affetto da una malattia cronica. Il non abbandono richiede anche la garanzia che, se non è possibile essere guariti, è sempre possibile essere curati. La medicina palliativa è, a quest’uopo, un ausilio importante. (la parola viene dal latino: pallium, mantello che dà dignità a chi lo indossa e protegge dalle intemperie e dal tempo avverso). La definizione che l’O.M.S. dà delle cure palliative, sottolinea trattarsi di cure che “affermano il valore della vita, considerando la morte come evento naturale; non prolungano né abbreviano l’esistenza dell’ammalato; provvedono al sollievo dal dolore e dagli altri sintomi; integrano gli aspetti psicologici e spirituali dell’assistenza; offrono un sistema di supporto per aiutare il paziente a vivere il più attivamente possibile fino alla morte; offrono un sistema di supporto per aiutare la famiglia dell’ammalato a convivere con la malattia e poi con il lutto” .
Esse possono essere offerte al paziente fin dall’inizio e per tutto il corso della malattia, in parallelo alle terapie eziologiche; man mano che la malattia avanza le cure palliative acquistano sempre più spazio a differenza di quelle eziologiche che tendono ad averne sempre meno. Le cure palliative, come è facilmente intuibile, richiedono un’integrazione di competenze, di professionalità e di contributi riguardanti gli aspetti fisici, psico-sociali e spirituali della persona malata; per questo esse prevedono la presenza di un’équipe curante multidisciplinare.
Tale équipe è attenta ai bisogni della persona nella sua interezza; tratta ciascuna persona come un individuo, con rispetto e accettazione, riconoscendo a ciascuno il diritto alla riservatezza e confidenzialità, le restituisce il più possibile e appena possibile il controllo della situazione; promuove la qualità della vita attraverso una buona assistenza, comprendente sussidi per la vita quotidiana, alloggio adeguato, efficace controllo dei sintomi, consentendo al paziente di vivere il più pienamente possibile fino al momento della morte; favorisce una morte dignitosa; fornisce un supporto al lutto dei familiari, partner e amici, includendo tutte le persone significative per il paziente”.
L’accompagnamento alla morte, infine, è uno tra i compiti più delicati delle cure palliative. Occorre aiutare il paziente a morire con dignità e speranza, rispettando i suoi desideri, anche quando non è cosciente, e le sue richieste religiose, sia esplicite che implicite.
Specie in questa fase, i temi etici da affrontare sono numerosi; tra i più scottanti sono quelli dello accanimento terapeutico e dell’ eutanasia.
Ora dirò poche parole sull’accanimento terapeutico. E’ giusto rifiutarlo; l’accanimento terapeutico è un agire che occulta e non riconosce la condizione mortale, un’ostinazione che combatte la morte, assolutizzando il finalismo biologico. Se si vuole affrontare il problema dei criteri per valutare l’accanimento/ostinazione terapeutica, essi possono essere così sintetizzati, in ordine di importanza, ma tutti necessari: il tempo considerato non solo come uno scorrere quantitativo (chronos), ma anche come un aspetto qualitativo (kairos). Occorre anche valutare la proporzione tra benefici e danni della terapia. Tra i benefici vanno considerate anche le relazioni che il paziente riesce a mantenere. Bisogna anche considerare la possibilità da parte dei familiari di sostenere in tutti i sensi tale situazione. Occorre, dunque, che vi sia una proporzionalità tra i mezzi che mettiamo in atto e i benefici che raggiungiamo. Infine, vanno valutati anche gli oneri della collettività, che devono garantire un’equa distribuzione delle risorse.
In questo senso, le Direttive anticipate di trattamento (dette brevemente DAT), possono essere importanti per esprimere le preferenze del paziente circa il trattamento che egli desidera, potrebbero rappresentare un consolidamento della comunicazione tra medico e paziente, specie quando si devono prendere decisioni importanti come quelle dl fine vita.
Tra le tante questioni, vorrei dire una parola su quella del rifiuto e della conseguente sospensione della nutrizione e idratazione artificiali (NIA), che la legge italiana ha incluso fra i trattamenti che possono essere rifiutati nelle DAT o nella pianificazione anticipata. Si tratta di interventi medici e qui, quindi, non si sfugge al giudizio di proporzionalità. Poiché (sono parole tratte da un articolo, posto sul sito ufficiale di Aggiornamenti sociali, scritto dal Gruppo di studio sulla bioetica di Aggiornamenti Sociali) non si può escludere che in casi come questi la NIA divenga un trattamento sproporzionato, la sua inclusione fra i trattamenti rifiutabili è corretta.
Nelle DAT è poi anche previsto l’addormentamento profondo della persona terminale.
A questo punto occorre fare una riflessione sul tema dell’eutanasia, richiesta dal malato. E’ un problema delicato.
Si pongono a questo proposito due questioni: anzitutto, l’interpretazione della volontà di morire espressa dal paziente, che rimanda alla più originaria questione del suo vissuto complessivo. Una seconda questione, non aggiunta ma intrinseca alla precedente, si pone poi in relazione alla volontà in qualche modo espressa dal soggetto: quale ne è la sua qualità morale? E in che misura va esaudita?
Di fronte alla complessità del problema, la rivendicazione dell’eutanasia come un diritto, anche quando si attende qualche tempo a eseguire la richiesta e la si realizza solo dopo una reiterata domanda, non può che apparire, quantomeno in prima battuta, una scelta frettolosa e impaziente, se non addirittura un’ignobile volontà di sbarazzarsi dell’altro, ridotto ormai a peso ingombrante.
Ma questa critica si può avanzare quando la richiesta è avanzata dallo stesso paziente “dottore, mi aiuti a morire!” e “non ce la faccio più. Lasciatemi morire in pace” ?
Alla domanda: “è possibile desiderare la morte?’ non si può dare una risposta definitiva in astratto: nelle singole situazioni essa va ogni volta riproposta e implica il darsi attivo di una relazione di accoglienza e di prossimità, senza cui non si può nemmeno immaginare di formulare una risposta. Nel singolo caso però siamo rimandati a una questione universale: che cosa si nasconde dietro l’invocazione a morire da parte di un malato terminale?
Più radicalmente, quindi, la domanda implica un’ ermeneutica del desiderio che si nasconde nella parola del lamento del malato. In questo lamento si esprime una ‘ferita del desiderio’ umano”.
Questa ermeneutica, naturalmente, è ben più che interpretazione di un eventuale desiderio di morte, perché rimanda a una questione originaria: che cosa desidera un uomo, malato, anche e proprio nell’approssimarsi della morte? Superando la tentazione di un rapporto distaccato e disimplicante, ove ci si limiti a “prendere atto” di una richiesta, diventandone frettolosi esecutori materiali, più radicalmente è necessaria un’ermeneutica del senso obbiettivo che si cela nel lamento del soggetto sofferente: “come è possibile riconoscere nel dolore la promessa della vita?” In questo lamento si potrebbe esprimere l’insopportabilità di un dolore fisico che non lascia scampo e da cui non ci si può disinvischiare, oppure l’impotenza, la schiavitù e la passività che ottunde la sensibilità, o la debolezza mortale di una vita che si spegne, o il disagio e la pesantezza di un corpo sentito come “nemico”, o l’estraneità e l’insidia della malattia che consuma e corrode anche la volontà di vivere, o la solitudine e l’incomunicabilità degli altri che per quanto vicini rimangono comunque estranei, o la paura di perdere tutto – affetti, legami – e di doversi definitivamente separare da tutto ciò cui ci si è attaccati nella vita, o la rivolta e la ribellione davanti a un non senso da cui ci si sente schiacciati, o il desiderio di un sollievo assai difficile da esaudire … Lenire il dolore fisico, in tale situazione può esser molto importante, “ma il dolore non è semplice questione fisica. Esso designa un’esperienza dell’uomo intero, nella sua indivisibilità, biologica, psichica e spirituale. In questa luce si ripropone la questione: dentro il lamento del malato terminale c’è sempre davvero un desiderio di morte? C’è davvero solo la richiesta di liberazione dalla morte? Questo lamento non può essere invece il suo modo di condividere, oppure non è esso anche la richiesta – a qualcuno o a Qualcuno! – di una pausa e di un po’ di respiro? Il lamento, forse maggiormente di un dignitoso silenzio, non dice piuttosto la debolezza dell’uomo, che di fronte al dolore, alla ‘prova’, al buio, all’oscurità e perfino di fronte al “salto” della morte, è tentato di soccombere e di disperare? E allora il lamento – e la stessa invocazione alla morte – non sarebbe piuttosto una supplica da sopportare, o un’invocazione che non verrebbe affatto esaudita se fosse impazientemente liquidata? Il lamento non potrebbe ancora esprimere il giusto desiderio di una qualità diversa della presenza degli altri, la richiesta di non essere lasciati soli e di ricevere un nuovo e altro tipo di attenzione e di cura? La cura del morente sarà anche obbiettivamente la migliore predisposizione di quelle condizioni che evitano il nascere della richiesta di morire, interpretando il vero senso di questo desiderio e prendendosi cura del morente con una presenza responsabile, nel rispetto del mistero della morte.”
I dati di uno studio di Breibart circa l’interesse di pazienti HIV positivi al suicidio assistito sembrerebbero supportare quanto detto sopra. A 378 pazienti ambulatoriali HIV positivi, il 90% dei quali aveva già una diagnosi di AIDS, nella città di New York, veniva somministrato un questionario che nello stesso tempo desse informazioni (automisurate) circa il dolore, i sintomi fisici del soggetto, l’angoscia psicologica, la depressione, i supporti sociali e l’interesse al suicidio assistito da un medico. I risultati di tale studio mostravano che il 63% dei soggetti appoggiava politiche favorenti il suicidio assistito e il 55% lo riconosceva un’opzione per sé.
Circa l’adesione al suicidio assistito, non vi era una correlazione con la severità del dolore e col danno funzionale correlato al dolore stesso, né con i sintomi fisici o il grado di avanzamento della malattia da HIV. I più alti predittori di interesse, invece, erano alti score nella misura dell’angoscia psicologica (depressione, disperazione, ideazione suicida, totale angoscia psicologica). Questi dati sembrano rafforzare l’idea che, alla base della richiesta di suicidio, non vi sia tanto un desiderio di morte, ma l’insopportabilità della propria situazione di vita. La soluzione del problema, allora, non sembra tanto quella di esaudire la richiesta di morte, quanto quella di ridare una speranza alla vita che resta e di mantener viva la fede nella promessa della vita stessa.
Questa speranza può essere tenuta viva anche dalla presenza di coloro che stanno attorno al morente con affetto e solidarietà, accompagnandolo, sostenendolo, aiutandolo nelle sue necessità quotidiane.

Le cure palliative sottolineano a questo proposito la necessità di non accanirsi; vi è un momento in cui al paziente non devono più essere praticati né esami diagnostici, né terapie aggressive, ma solo curati i sintomi dolorosi e non dolorosi.
In fondo, l’accanimento terapeutico ha in sé la stessa logica dell’eutanasia. L’eutanasia “in quanto anticipazione frettolosa della morte, è una scelta di violenza e una sorta di caricatura dell’ abbandono e della rassegnazione alla morte. Imponendosi la morte e abdicando precipitosamente ad essa, si trasgredisce quel debito di fedeltà nei confronti della promessa della vita … Ugualmente anche l’accanimento terapeutico è un agire che occulta e non riconosce la condizione mortale, una ostinazione che combatte la morte, assolutizzando il finalismo biologico e i meccanismi biologici che, se sono condizione obbiettiva della vita, non coincidono tuttavia con l’intero dell’uomo. Il vero compito posto dal superamento dell’alternativa tra eutanasia e accanimento terapeutico è allora la necessità di superare l’alternativa tra il decidere di morire (suicidio) o il lasciarsi morire e il non voler morire a tutti i costi. Il vero compito dell’uomo è quello di una morte buona”.
Certo, resta il problema di chi non accetta quanto ho detto precedentemente o di chi, pur non essendo in stato terminale, non riesce a sopportare la situazione in cui si trova.
Saranno pochissimi casi, ma come garantire che lo Stato tuteli queste persone, dando loro la possibilità di una morte dignitosa? E’ proprio necessario fare una legge che consenta l’eutanasia disponibile per tutti?

Antonietta Cargnel