Pace in Medio Oriente: la forza delle città

di Patrizia Giunti

Intervento per l’incontro promosso da «Assisi pace giusta» lo scorso 4 febbraio a Firenze

«Ma perché dovremmo preoccuparci delle generazioni future che cosa hanno fatto loro per noi?» Con questo interrogativo, frutto della ironia dolente di un maestro del surreale, come fu Groucho Marx, un economista italiano, più volte ministro della Repubblica, Enrico Giovannini, apre un suo volume recentissimo, di pochissimi anni fa, sul tema dello sviluppo sostenibile. L’intento è chiaramente quello di lavorare sulla portata paradossale di questo interrogativo per far emergere immediatamente a quella che è la conclusione nella quale tutti ci riconosciamo, ovverosia quella della necessità ineliminabile della solidarietà intergenerazionale.

Questo stesso interrogativo, insieme malinconico e graffiante, a mio avviso, potrebbe essere piegato per formulare una domanda di senso per la nostra presenza qui, questa mattina, popolo dell’associazionismo che si riunisce in questa che – è stato ricordato – è la sala simbolo e immagine della nostra città. Ma perché devo andare di domenica mattina a Palazzo Vecchio, rinunciando a quell’unica ora di sonno in più che soltanto la domenica mi posso ritagliare, per andare a occuparmi del Medio Oriente e proclamare la pace in Medio Oriente: non è il mio paese, non è la mia guerra.
E anche in questo caso l’effetto retorico del paradosso fa emergere immediatamente la risposta nella quale ci sentiamo coinvolti ed è una risposta che ci chiama in causa innanzitutto sul piano civico, perché come cittadini sappiamo di riconoscerci nella nostra Carta costituzionale e la Carta costituzionale dice che l’Italia ripudia la guerra come mezzo per la risoluzione delle controverse internazionali. E questo ripudio noi siamo chiamati ad interpretare costantemente, proclamandolo a tutta voce.
E la risposta ci accompagna ed emerge immediatamente anche sul piano sul piano religioso e ci coinvolge nella misura in cui siamo donne e uomini di Fede, perché sappiamo che la comunione, l’incontro con l’altro, passa anche, come ci dice il cardinale Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, attraverso l’ecumenismo della sofferenza, l’empatia del dolore.
Sono risposte forti, importanti. Eppure forse non bastano per darci conto della fatica, perché di autentica fatica si tratta, con la quale dobbiamo confrontarci nel momento in cui ci troviamo a dar conto e a spiegarci le ragioni di una conflittualità lunghissima che recuperiamo nei meandri di secoli, che ci riporta sicuramente alla fine della seconda guerra mondiale, a quella risoluzione 181 delle Nazioni Unite, che ormai tutti conosciamo, ma che ancora più indietro nel tempo ci riporta alla fine della prima Guerra mondiale e alla caduta dell’impero ottomano e ancora indietro nei secoli sino all’impero romano.
E così dobbiamo studiare sul piano geografico le caratteristiche di territori bellissimi, ma difficili, perennemente attraversati da tensioni politiche culturali, dall’ingordigia delle brame di potere e della sete degli interessi economici.
Tutto questo sforzo di comprendere per arrivare a formulare una opzione di pace consapevole e credibile, per arrivare a chiedere un cessate-il-fuoco immediato, che apra ad una prospettiva di soluzione negoziata e finalmente politica, nelle forme dei riconoscimenti che si potranno costruire nei tavoli internazionali.
Ebbene tutto questo sforzo al quale siamo chiamati, sforzo di comprensione, sforzo di consapevolezza, tuttavia non ci esonera dal rischio di essere fraintesi nelle nostre proposizioni, dal rischio di essere anche criticati, censurati come portatori di un messaggio di debolezza, se non di ipocrisia, se non addirittura di connivenza, con le ragioni degli uni.
E dunque ne vale la pena essere qui? La risposta è sì, ma è la risposta che dobbiamo dare ad una domanda diversa, perché è diversa la domanda che dobbiamo formulare. Ma siamo sicuri che questa guerra, così come le altre guerre che compongono la guerra mondiale a pezzi, di cui ancora ieri il Santo Padre ci ha parlato nella lettera inviata alle sorelle e ai fratelli ebrei, che questa guerra, che tutte le guerre non ci riguardino personalmente, non ci appartengano? Certo, non possiamo minimamente pensare di comparare la nostra sicurezza attuale con la condizione di chi si trovi sotto i bombardamenti di chi si trovi ostaggio privato della libertà, di chi abbia perso la vita in attacchi proditori.
E, tuttavia, siamo certi che invocando questa mattina la pace per il Medio Oriente noi la invochiamo anche per noi stessi. Dove possiamo dire che finisca una guerra? Quali sono i confini di una guerra? Tutti noi bene conosciamo le conseguenze sul piano delle migrazioni dei popoli, il dramma di intere popolazioni costrette a fuggire e l’urgenza di una risposta per la loro accoglienza da parte di altri paesi. Così come tutti bene conosciamo le tanto declamate conseguenze economiche collaterali di un conflitto. Lo abbiamo ben visto e lo vediamo tutt’ora con la guerra in Ucraina, il continente africano, lo vediamo ogni giorno con le conseguenze legate alla instabilità del Medio Oriente.
Eppure l’onda lunga della guerra, l’onda lunga di tutte le guerre, va ancora più oltre, ben più oltre. Nel suo intervento in occasione della celebrazione della Giornata della memoria, il presidente Mattarella ha detto: “Siamo di fronte a un nuovo crinale apocalittico, per usare un’espressione cara a Giorgio La Pira”. Sono particolarmente grata al presidente Mattarella per queste sue parole e certo non soltanto per il ricordo esplicito di La Pira e del suo impegno per la costruzione della pace nel mondo. Gli sono grata perché con questa affermazione, con queste parole, il Presidente ci ha ricordato e con l’autorevolezza sua propria della carica che ricopre, che la prospettiva di quell’abisso dell’orrore del quale pensavamo di esserci definitivamente liberati, del quale pensavamo di essere ormai definitivamente immuni, quella prospettiva in realtà è tornata ad abitare la nostra quotidianità.
L’alternativa tra la pace e l’autodistruzione totale è un’alternativa che ci pone di nuovo di fronte all’urgenza di una scelta ed è una scelta difficile, perché la pace è una dimensione complessa, che esige la costruzione di una civiltà della pace, attraverso il dialogo e grazie al riconoscimento della giustizia e della libertà per i singoli e per i popoli.
In un celebre discorso del 1969 diceva La Pira: “Guardate, non basta non fare la guerra, ci vuole di più: dobbiamo cambiare qualitativamente la civiltà del mondo, dobbiamo passare da una civiltà costruita in vista della guerra ad una civiltà costruita in vista della pace”. “Una civiltà costruita in vista della pace”. Sono le parole di La Pira nel 1969.
Per riprendere le parole del Segretario di stato Vaticano, cardinale Parolin, nel suo intervento del 12 gennaio scorso all’accademia dei Lincei, possiamo dire: la pace come metodo, la pace come traguardo. La pace è metodo, è il metodo della diplomazia, della diplomazia Vaticana in primo luogo: il dialogo, il rispetto, l’inclusione per qualsivoglia interlocutore. E la pace come traguardo: traguardo da inseguire sempre con maggior convinzione e sempre con maggiori difficoltà, perché oggi è la guerra ad avere riconquistato il centro della scena e il centro della legittimazione politica, ma soprattutto culturale. È la civiltà della guerra, come la chiamava La Pira
La guerra, è stato detto, è stata rivalutata e rappresenta non più soltanto una necessità sofferente, dolorosa, ma ineliminabile, bensì oggi si accredita anche sul piano etico perché la narrazione ci dice che la vera pace si potrà costruire soltanto dopo l’annientamento militare dell’altro. Ed ecco, allora, che le grandi armi strategiche tornano a farsi oggetto di interesse ma anche di ammirazione estetica. Ecco che i bilanci statali e sovrastatuali vengono ridimensionati per lasciare più spazio alle spese per gli armamenti militari. Ed ecco che prestigiose istituzioni universitarie, culturali, ospitano eventi scientifici nei quali si dibatte tranquillamente sulle opportunità offerte dall’impiego della intelligenza artificiale per rendere più performanti le nuove strutture militari dal punto di vista della loro capacità distruttiva; una capacità distruttiva che è destinata ai civili, in questo nuovo paradigma della guerra del Terzo Millennio, che ormai mette da parte gli eserciti, perché è una guerra che si combatte con i civili, sui civili. Ed allora ci viene detto che c’è bisogno – e ci si sta lavorando – di una bomba atomica 24 volte più potente della bomba che distrusse Hiroshima e Nagasaki: 24 volte più potente. Ma che ci serve? Ci basta molto di meno per segnare la fine della vita sulla terra.
Questo è il vero effetto lungo della guerra, della guerra in atto, delle guerre in atto, e questa è la situazione per la quale noi sappiamo di trovarci coinvolti in prima persona; sappiamo che queste guerre ci appartengono e sappiamo che tutto questo non ci consente di voltare lo sguardo dall’altra parte.
La guerra è protagonista della nostra quotidianità, la distruzione, la sopraffazione, la sofferenza, sono diventate, appunto, l’ordinaria follia, la banalità del male che di nuovo ogni giorno ci abita. È la civiltà della guerra, come ha detto il cardinale Pizzaballa nella sua prolusione di apertura dell’anno accademico all’Università Cattolica nella sede romana di qualche giorno fa. Si tratta anche – mi permetterei di aggiungere – soprattutto di un problema di linguaggio, il linguaggio delle istituzioni, il linguaggio dei media è un linguaggio che rivaluta la guerra e non si tratta semplicemente del linguaggio della propaganda che c’è sempre stata: oggi c’è molto di più. Nella società della comunicazione e della comunicazione tecnologica quale noi siamo il linguaggio pieno di odio e di aggressività, il linguaggio che esprime un bisogno di vendetta, così come le immagini che rappresentano con compiacimento la violenza più brutale sul corpo dell’altro, sono ben più che un mezzo di propaganda per la guerra: sono esse stesse strumento di guerra e lo strumento più pericoloso, perché più pervasivo, più capillare, capace di arrivare ovunque con una forza di convincimento che mai è stata conosciuta nella storia dell’umanità. È il linguaggio che lavora sulla paura ed è pertanto capace di alimentare senza limiti e senza controllo un’altrettanta risposta di violenza e di odio, come risposta alla paura. Ed ecco perché, come ci dice il cardinale Pizzaballa, l’antidoto sta nell’educazione; ed ecco perché tutti siamo chiamati a fare la nostra parte: nessuno può tirarsi indietro.
Ed è educazione in primo luogo alla speranza. Ma cosa significa speranza? È la speranza lapiranamente intesa, non è certo l’auspicio di una coscienza fragile, la languida osservazione dell’altro, immaginando una risposta che in qualche modo arriverà. È la speranza che La Pira coltiva contro la più profonda delle disperazioni, è la speranza che nasce dalla forza di una visione di pace autentica, profonda e nasce dalla fiducia che viene da un gesto concreto di pace: il dialogo, l’incontro, l’attenzione, il gesto della compassione, il gesto dell’empatia, il confronto con chi ha bisogno di noi.
È il nostro essere – ancora una volta nelle parole di Papa Francesco – il nostro essere artigiani di pace. E questo è compito che coinvolge ciascuno di noi.
La pace è l’opzione più ambita dai popoli, ma è anche l’opzione più avversata. I premi Nobel che sono stati assassinati erano i premi Nobel della pace ed erano i premi Nobel per la pace costruita in Medio Oriente: il presidente egiziano Sadat, assassinato nel 1981, premio Nobel per il suo contributo alla conclusione del conflitto Egitto-israeliano negli accordi di Camp David con il presidente Begin. E Rabin, primo ministro israeliano, assassinato per gli accordi di Oslo, conclusi con Arafat.
A questi due nomi si aggiunge il nome iconico del movimento di pace: Martin Luther King, il messaggero della pace. Ho un sogno. Sogno il giorno in cui tutti gli uomini, bianchi e neri, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le loro mani e cantare insieme. Luther King, Sadat, Rabin, un cristiano protestante, un musulmano, un ebreo, le tre fedi abramitiche riunite nel sacrificio della loro vita, ma anche nel gesto concreto della speranza di pace. Avrebbe detto La Pira in questa sala, nella quale portò i Colloqui mediterranei: è il dialogo della famiglia di Abramo, nella sua forma più alta, nel sacrificio di sé per il bene degli altri.
Ho iniziato questo il mio intervento con una con un richiamo tra il letterario e il cinematografico e concludo nello stesso senso. Agli inizi del Seicento un poeta religioso e inglese John Donne scrive un sonetto – è una meditazione – con il quale è rimasto contro le sue stesse aspettative incredibilmente celebre nel nostro tempo, perché in questo sonetto dice John Donne: “Per chi suona la campana?”, (il romanzo di Hemingway, il bellissimo film con una straordinaria giovanissima Ingrid Bergman). “Per chi suona la campana?”, dice John Donne, “faccio parte dell’umanità, perché nessuno uomo è un’isola e ogni morte mi diminuisce, ogni morte è la mia morte e perciò quando senti la campana non domandare per chi suona la campana, la campana suona per te”. Ecco, quando sentiamo il grido di dolore di una vittima della guerra, quando avvertiamo in lontananza dalle trasmissioni televisive alle quali assistiamo il fragore dei bombardamenti o il crepitìo delle mitragliatrici, non chiediamoci per chi sono, da dove vengono, sono per noi, riguardano noi e a noi ci chiedono di dire: “fermate la guerra”.

E’ possibile rivedere l’intero incontro (https://youtu.be/Xv9WlHTGwgw).