Curiosità intellettuale, impegno sociale e passione mistica

Achille Ardigò, scuola della Rosa Bianca, agosto 1993

ricordando Achille Ardigò
(1 marzo 1921, San Daniele del Friuli – 10 settembre 2008, Bologna )

di Michele Nicoletti
articolo pubblicato sulla rivista Il Margine (n.1/2009)

Tra i fondatori della Lega Democratica nutrivamo un affetto speciale per Achille Ardigò. A dire il vero nei confronti di tutti loro avevamo una specie di devozione che ci spingeva a seguirli ovunque scrivessero o parlassero. Li avevamo eletti a nostri maestri e volevamo imparare. In quegli anni la passione politica spingeva ad apprendere, studiare e ad ogni incontro si stava lì ad ascoltare riempiendo quaderni di appunti. Dopo i convegni della Lega si tornava a casa e c’erano ogni volta cinque dieci nuovi libri da leggere e idee da comunicare. E a noi non pareva vero poter coniugare passione civile e passione intellettuale. A molti di noi giovani cattolici smarriti nei primi anni settanta la Lega aveva dato un’identità storico-culturale.

Non eravamo socialisti come la maggior parte dei nostri coetanei, perché il retroterra culturale del socialismo italiano era marxista e a noi quell’impasto di materialismo e determinismo storico non diceva molto. Ci piaceva parlare di carne, pane, poveri e lavoro, ma era pur sempre Dio e non noi che faceva la storia, eravamo anime contemplative e poi non ci piaceva la sesta tesi su Feuerbach quella secondo cui l’individuo, nella sua realtà, è l’insieme dei suoi rapporti sociali. Si era nonviolenti amando Martin Luther King e antitotalitari per dna nati nell’autunno dell’invasione d’Ungheria e cresciuti come si era nell’ammirazione per i resistenti, da quelli antifascisti e antinazisti a Ian Palach. Chi di noi studiava a Bologna in facoltà liberal aveva infarcito il piano di studi di corsi tenuti da professori della Lega.

Bologna a metà degli anni settanta era davvero interessante per i cattolici democratici. Nino Andreatta, Romano, Paolo e Giorgio Prodi, Ardigò, Ruffilli, Pedrazzi e poi Alberigo e il Centro per le Scienze Religiose con i seminari di Ivan Illich e infine le messe di don Giuseppe Dossetti e qualche altra occasione per ascoltarlo.

All’università i corsi di Ardigò erano tra i più stimolanti perché la sua curiosità intellettuale era inesauribile e il suo entusiasmo per ogni nuova scoperta intellettuale era contagioso. Si capiva che il suo interesse per il nuovo era teologicamente fondato, come chi rumina dentro di sé il versetto di Isaia («Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?») ed è sempre preoccupato di farsi sfuggire le novità che la provvidenza fa germogliare nella storia. Forse per questo lo sentivamo vicino, appassionati anche noi – allora – alla storia e intenti a non farci sfuggire il nuovo. Così anche se Ardigò faceva lezione fino al sabato a mezzogiorno, si stava lì a sentirlo spiegare Habermas e Luhmann e la crisi della soggettività negli anni in cui sarebbe maturato il suo Crisi di governabilità e mondi vitali.

Dalla lettura della crisi della razionalità del capitalismo maturo di Habermas, a cui ci aveva provvidenzialmente costretti nell’inverno del ’77 quando a Bologna le nuove soggettività stavano prendendo congedo dal vecchio sistema dei partiti, avevamo imparato che «non esiste una creazione amministrativa di senso» e che alla domanda di senso – drammaticamente crescente – non si sarebbe potuto rispondere solo con una riforma del sistema politico. Il luogo in cui il “senso” della vita e delle cose poteva essere appreso e ricreato era il mondo della vita, quel mondo che la fenomenologia aveva insegnato a guardare come il mondo delle relazioni primarie in cui la vita e i suoi significati si riproducono e si ricreano incessantemente. Qualcosa si era rotto in quegli anni tra il sistema politico e i mondi vitali ed occorreva rivitalizzare l’uno e gli altri e creare nuovi canali di comunicazione. Et et non si stancava di ripetere Ardigò in ogni suo intervento a chi bollava come pre-politico (e dunque preliminare) tutto ciò che era al di fuori del sistema dei partiti, ma anche a chi inseguendo la logica dei movimenti considerava le istituzioni cosa morta e inutile.

La cultura politica era allora (solo allora?) dominata dalla logica del primato del politico, inteso come luogo supremo dell’eticità umana, luogo della sintesi superiore, luogo dell’universale. Tutto il resto era giudicato schiavo del particolare e chi rivendicava i diritti delle soggettività o della società civile eccetera doveva sorbirsi la solita rampogna sui pericoli delle derive irrazionalistiche e così via.

Curioso del nuovo, anima mistica

Purtroppo il primato del politico si è tradotto, come sappiamo, nel primato del ceto politico che ha umiliato le professionalità, le soggettività libere, il lavoro produttivo e tutto il resto. Contro questa visione monistica e gerarchica del politico e del suo rapporto con il sociale, Ardigò proponeva un’interpretazione pluralistica e dialettica. Amava e faceva amare Tocqueville, a cui aveva dedicato un libro uscito assieme alla proposta politica di Degasperi di Pietro Scoppola. Memorabile giornata quando i due maestri presentarono assieme a Palmanova i loro due libri col segretario della Democrazia Cristiana Zaccagnini ad ascoltare. Il libro su Tocqueville aveva al centro il tema della partecipazione ed era questa una delle chiavi per superare la frattura tra sistema politico e società civile, a partire dal basso, secondo la grande tradizione democratica americana. Ardigò sarebbe felice a leggere oggi la conclusione del libro di Robert Dahl sull’uguaglianza politica. Sì, certo, qualche nostalgia per il partecipazionismo democratico anni sessanta. Ma in fondo non è questa la forza della tradizione democratica come ha ben mostrato la vittoria di Obama?

Dunque et et. Sistema politico e soggettività. Così in mezzo a Habermas e Luhmann il discorso finiva sull’amato Kierkegaard. Fu lui a consigliarmi il tema per la tesi di laurea in filosofia “Soggettività e storia in Kierkegaard”. Da appassionato lettore del filosofo danese aveva intuito che la sua dialettica non era negatrice della storia, al contrario il personalissimo rapporto del Singolo con Dio era il fondamento della libertà dell’uomo nei confronti di ogni potere mondano che si pretendeva assoluto. Tanto era curioso del nuovo e lettore aperto di ogni nuova interpretazione del sociale, tanto Ardigò coltivava un’anima mistica. Aveva una passione per san Giovanni della Croce. Fu così che quando mi capitò per le mani l’anastatica della dissertazione sull’empatia di Edith Stein, mi venne spontaneo subito di proporgli di presentarla al pubblico italiano. Un misto di fenomenologia e san Giovanni della Croce non poteva non piacergli. Mi scrisse il giorno dopo: «sto leggendo la Scientia crucis, traduciamola subito». Nelle scoperte era difficile anticiparlo.

Quando si era a Camaldoli con le settimane teologiche della FUCI veniva sempre a fare almeno un saluto e l’anno che era relatore don Caffarra ci regalò un pomeriggio di insperata apertura.

Per questo quando le scuole della Rosa Bianca uscirono dalla clandestinità e divennero pubbliche Ardigò fu uno dei maestri che non potevano mancare e ci accompagnò per vent’anni, alla fine sempre facendo la relazione di apertura.

Alle prime scuole si era un po’ indisciplinati e irriverenti e ci piaceva interrompere i relatori chiedendo loro di non fare sempre analisi distaccate, ma di raccontarci anche la loro storia, il perché avevano fatto quello che avevano fatto e i personaggi che avevano conosciuto. Così da Ardigò ci piaceva sentire i racconti di quando era staffetta partigiana e poi l’avventura dossettiana e Rossena e poi Matera e la Cisl e tutto il resto. Lui raccontava volentieri le cose del passato, ma sentiva poi sempre la responsabilità di guardare avanti. Fu una grande lezione quando durante una scuola particolarmente resistenziale a Brentonico, tutta ruotante su morti e resistenti da Bonhoeffer alla Weisse Rose – probabilmente si era agli inizi di un qualche regime berlusconiano –, ci prese da parte affettuosamente e ci disse che non si poteva costruire tutta una scuola sulla sola memoria della resistenza passata. Bisognava guardare avanti e non smettere di costruire. L’anima mistica di Ardigò si accompagnava ad una instancabile passione riformatrice. Voleva costruire, fare, creare, in lui l’interpretazione del fatto sociale non si poteva non accompagnare all’azione per trasformare la società. Il lavoro intellettuale doveva accompagnarsi all’impegno civile, ma ad un impegno fattivo che si traducesse in realtà concrete, istituzioni, strutture, leggi, azioni sociali volte alla giustizia. Azioni in cui l’ispirazione e la passione si unissero alla competenza professionale, all’apertura verso ciò che si faceva altrove, all’utilizzo delle migliori e più moderne tecnologie.

Non hanno più stima dei laici

La sua fortissima sensibilità ecclesiale lo rendeva il più attento alle ragioni della comunione anche con i pastori. Del gruppo della Lega Democratica, non era stato tra i cattolici del no in occasione del referendum sul divorzio. E forse per questo la sua intervista del 2005 sull’inverno della Chiesa seppe interpretare con delicatezza ma anche con vigore il disagio di molti. In quell’intervista Ardigò lamentava la «rilettura normalizzante del Concilio» legata al primato della teologia razionalista incapace di dare spazio alla trascendenza e al primato della gerarchia ecclesiastica nelle scelte storiche dei credenti. In questo modo si finisce per affidare ai laici un ruolo meramente organizzativo, mentre ogni altra scelta, perfino quelle tattiche, sono riservate alla gerarchia. E così concludeva:

«La Chiesa è una comunità ricca di spiriti e di intelligenze, dal più remoto convento di clausura alla più piccola associazione parrocchiale. I vescovi dovrebbero avere fiducia in questo immenso patrimonio: se scendono in campo direttamente, vuol dire che non ne hanno più. La Chiesa non può farsi partito politico senza rischiare di dissolvere il proprio fondamento mistico. M’intenda bene: io capisco Ruini, capisco Ratzinger, i problemi che devono affrontare sono immensi, e i rischi di isolamento e di arretramento per la Chiesa sono reali. Ma non è questa la strada per affrontarli. Se c’è una cosa che mi addolora è la sensazione che Ruini non abbia più stima dei laici credenti. Come se ci ritenesse tutti incapaci di ricavare norme di comportamento personali e opzioni politiche positive dai principi indicati dalla Chiesa. Noto con dispiacere che vescovi e cardinali si fidano, lusingandoli, molto più dei cosiddetti “atei devoti”, i Ferrara, la Fallaci, che dello spirito e della mente dei credenti. L’unica speranza è che il laicato cattolico ricordi di possedere un mandato, lo rivendichi e lo eserciti». È tempo di dare corpo a questa speranza.