Fare la propria parte per far ripartire il paese

Il necessario contributo delle lavoratrici e dei lavoratori

Testo a cura del gruppo Rosa Bianca di Pisa

Il presente documento inquadra il tema del lavoro all’interno della situazione economica generale.

Intendiamo in questo modo venire incontro alla reiterata richiesta della presidenza in proposito e rispondere alla sua preoccupazione che un aumento della quota parte dei salari sul Prodotto Interno Lordo possa pregiudicare lo sviluppo del paese. Preoccupazione che sembra riecheggiare una vetusta polemica sul salario come “variabile indipendente“. Allo scopo di inquadrare il contesto economico a partire da una dimensione europea, la riflessione generale che abbiamo fatto parte da una presa in carico dei rapporti di forza dei sistemi produttivi europei, in cui ha una parte preponderante la Germania, stante l‘identificazione dell‘area dell‘Euro come una nuova area del Marco. Evidenzieremo molto presto il nesso tra questi punti di riflessione e le politiche del lavoro.

La stagnazione tedesca del 2019 , che quest’anno si sarebbe tramutata in recessione anche senza l’emergenza coronavirus, unita alla profonda crisi del settore automobilistico teutonico, che non aveva voluto affrontare la sfida dell’elettrificazione lanciata dalla Cina, ha chiarito anche alla cancelliera Merkel (che da post-cristiano democratica avvezza alle politiche liberiste concepisce lo Stato come mero supplente da far entrare in azione a seconda di singoli eventi) la necessità di un cambio di rotta a livello europeo su alcuni temi per evitare ben più profondi cambiamenti sul piano economico e politico . Cambiamenti che avrebbero comportato turbolenze e incertezze, condizione sempre sgradita alla classe media tedesca, che fa della stabilità la sua regola di vita e non a caso vede nei Verdi, con il loro mantra della sostenibilità, uno dei suoi partiti di riferimento. Turbolenze e incertezze particolarmente sgraditi in questa fase storica, con la Germania e i suoi satelliti che ancora raccolgono i frutti delle vittorie nella guerra fredda e nel dopo guerra fredda

Cambiamenti sul piano economico . Mantenere il dogma liberista del non intervento dello Stato in economia (ideologia predicata ma mai applicata dai nostri concorrenti americani, come i libri della Mazzucato dimostrano) impedirebbe all’industria tedesca di ammodernarsi e reggere la concorrenza di Cina e Stati Uniti: come ci ha raccontato Marta Fana nel corso di una presentazione pubblica del numero dedicato all‘ambiente della rivista Jacobin Italia a Pisa con Andrea Roventini e Lorenzo Zamponi, non possiamo davvero credere che nella competizione fra la Volkswagen e la Cina la prima abbia qualche possibilità di vittoria. Perdere la sfida della modernizzazione comporterebbe un forte ridimensionamento della base industriale tedesca e la decadenza della Germania, con conseguenze analoghe a quelle che noi italiani sperimentiamo quotidianamente sulla nostra pelle. La cancelliera ha così deciso di far intraprendere all’Europa politiche industriali attive. Bisogna precisare un elemento di contesto politico-culturale: rifiutiamo in toto la tesi della destra secondo cui tale cambiamento è dovuto all’estrema debolezza di Francia e Italia, concorrenti della Germania, che quindi approfitteranno in maniera molto limitata di queste politiche. Questo cambiamento, per chi avesse voluto leggerlo, era in corso dal 2018, con la nomina di Mariana Mazzucato a special advisor della Commissione Europea. Da quel momento la sfida per la classe dirigente italiana, come dicevamo nell’incontro col prof. Mario Morroni ad ottobre, era diventata prepararsi all’appuntamento con questo nuovo scenario: una forte differenza nella quantità o nella qualità delle destinazioni dei fondi investiti dai vari paesi dell’Unione avrebbe infatti fatto crescere il divario fra il Nord ed il Sud dell’Europa a livelli ottocenteschi. Una vicenda analoga rispetto a quella del secondo dopoguerra in Italia, quando i fondi della ricostruzione furono concentrati nel nord del Paese, come rammentato dal prof. Guido Pescosolido nell’incontro del marzo 2018.

Cambiamenti sul piano politico . Elencando le varie esternalità che il sistema delle imprese, idealizzato dall’ideologia liberista e progressivamente costruito in Italia e in Europa in questi anni, tende sempre a scaricare sulla società se lasciato a se stesso, Colin Crouch (nel libro “Will the Gig Economy prevail” studiato dal gruppo di Pisa) indica nell’insicurezza la decisiva esternalità finale, quella piú importante e che le riassume tutte. È il reale impoverimento o la paura dell’impoverimento futuro che spinge la classe media, abbandonata dai partiti socialdemocratici, nelle braccia della destra neofascista in tutta l’ Europa. È degno di nota che le stesse persone che reclamano continuamente leggi ed interventi statali per azzerare l’insicurezza del fare impresa, ripudiando nella prassi il rischio d’impresa del capitalismo alla cui retorica esteriormente si richiamano, lavorino per accrescere continuamente l’insicurezza dei propri concittadini. La scommessa dei liberisti è di riuscire a contenere le conseguenze di questa insicurezza tramite un apparato ideologico forte, diffuso capillarmente dalla camera dell’eco dei social- e dei mass-media. Apparato ideologico che, come ci raccontava Marta Fana nel 2019, disarticola le opposizioni colpevolizzando il singolo lavoratore e dividendo i buoni e bravi che “ce la fanno” dagli altri ignoranti e risentiti – i gufi di renziana memoria. Esattamente come si dividono i cittadini buoni degli Stati frugali e parsimoniosi (che sarebbe opportuno iniziare a chiamare antieuropeisti visto che minano alla base la convivenza nell’Unione) dai pigri e fannulloni cittadini dei PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), la cui esatta traduzione resta “porci”. L’esempio dell’Unione Cristiano-Democratica tedesca è particolarmente importante perché governa il Paese guida dell’Europa. Punta anch’essa a cavalcare la tigre e controllare la formazione di partiti di estrema destra, fenomeno che per lei presenta evidenti ricadute positive: Alternative für Deutschland in Germania ha creato un partito con base operaia di destra e impedito che il crollo della Merkel venisse capitalizzato dai partiti di sinistra esattamente nel momento in cui Schulz dichiarava di non voler ripetere gli errori del 2005 e del 2013 , quando in parlamenti con maggioranze di sinistra i socialdemocratici preferirono consegnare il paese alla Merkel che allearsi con i Verdi e la Sinistra. La scommessa per i democristiani tedeschi è evitare che una profonda crisi economica le faccia perdere il potere portando un partito neonazista al governo. Da qui il cambiamento di politiche industriali a livello continentale voluto dalla Merkel, tardivo ma benvenuto. Cambiamento in marcia assunto nel 2018 per ragioni squisitamente economiche e solo accelerato dalla crisi del coronavirus, crisi che fra l’altro permette un cambio di direzione senza dover giustificare alla popolazione gli errori e le scelte politiche degli ultimi anni.

Se le politiche industriali sono cambiate, nessun vero mutamento è all’orizzonte riguardo alle politiche del lavoro, che mirano sempre a tenere questo fattore di produzione il più possibile a buon mercato . Non c’è quindi nessun vero programma per ridurre l’insicurezza delle classi medie, unico metodo per togliere l’acqua in cui nuota la destra. Questo perché, come nel primo dopoguerra, a certi ambienti l’ideologia neofascista e i partiti che la esprimonono, benché condannati nella retorica, tornano utili nella pratica. Ma giocare col nazismo è pericoloso. Ed è proprio da questo risorgente pericolo che parte la riflessione e l’azione politica della Rosa Bianca pisana, che richiamandosi ai ragazzi di Monaco ha nell’antinazismo la sua ragion d’essere. Fu Ágnes Heller al Pisa Book Festival nel 2013 che ci esortò a studiare i meccanismi che portano all’ascesa dei fascismi. Per questo abbiamo affrontato prima il ciclo crisi economica = > impoverimento della classe media => bisogno dell’uomo forte e successivamente ci siamo interrogati sulle radici della crisi del ’29.

 Come ci ha ricordato il prof. Cesare Pozzi nel 2018, poco prima della Grande Guerra Henry Ford cambiò il paradigma culturale negli Stati Uniti: per lanciare la produzione di massa delle sue auto trasformò i suoi operai in consumatori di beni durevoli, raddoppiandone i salari e cambiando i contratti di lavoro, dandogli così la stabilità che rendeva possibile la vendita a rate delle sue automobili. Trasferì cioè anche ai lavoratori gli aumenti di produttività conseguiti con la produzione di massa, invece di incamerarli come profitti unicamente degli azionisti. Ponendo così le basi per un’ulteriore crescita. I salari e gli aumenti di produttività negli Stati Uniti cresceranno di pari passo fino all’inizio degli anni ‘20, quando la ricerca di un guadagno immediato da parte degli imprenditori inizió a far crescere nuovamente i salari meno dei loro profitti. La crescita continuerà ancora per quasi un decennio sostenuta dall’aumento del debito, ma nel ’29 arrivò inevitabilmente la grande depressione.

C’è in questo una somiglianza con il meccanismo keynesiano che abbiamo visto funzionare in Europa nel secondo dopoguerra durante i Trenta Gloriosi, periodo espansivo in cui gli aumenti di produttività erano distribuiti anche ai lavoratori in modo da far aumentare la quota parte dei salari sul PIL e sostenere la domanda, come abbiamo imparato leggendo “Il Capitale nel XXI secolo” di Thomas Piketty nel 2014. La dinamica espansiva, che ha avuto impatti positivi anche sul piano dei diritti sociali e del miglioramento delle politiche del lavoro, è stata interrotta da un’offensiva della destra che ha portato alla riduzione della parte dei profitti che andava al lavoro e dalle crisi petrolifere. Ma gli errori più grandi sono stati fatti dopo la caduta del muro di Berlino, nel ventennio che in Italia coincise con la cosiddetta Seconda Repubblica. Fu allora infatti che i potenziali dell’entrata nell’Euro sono stati doppiamente vanificati lasciando al Paese gli effetti negativi. Ripercorriamo brevemente quella storia perché oggi corriamo il serio rischio di vivere la ripresa di quella composizione musicale tristemente nota.

Il vincolo esterno, un sacrificio doppiamente vanificato.

Il vincolo esterno, consustanziale all’Euro, doveva servire anche a mettere fine alla forma-sonata che aveva caratterizzato la politica italiana dalla fine della cosiddetta Prima Repubblica: come in una sinfonia, con primo movimento la destra spendeva in modo irresponsabile servendo le sue clientele, mentre con un secondo movimento la sinistra riordinava i conti dello Stato con misure massimamente a carico dei lavoratori facendo appello al loro senso di responsabilità nei confronti del bene comune del paese. È la triste storia dei governi da Amato a Monti, con l’aggravante per la sinistra che, dopo i tagli nella prima fase della legislatura, l’elemento melodico “fase due”, ossia una seconda parte della legislatura caratterizzate da politiche espansive e redistributive tanto attese dagli elettori, non è mai arrivata in tal senso, e persino la politica limitata dei bonus, perseguita dal governo Renzi, appare come un passo in avanti rispetto al quadro che abbiamo precisato.

L’entrata nella moneta unica, che rese disponibili ingenti capitali nel nostro Paese, diede al blocco sociale a trazione imprenditoriale che ha portato e mantenuto Berlusconi al potere la possibilità di sviluppare pienamente il primo movimento della sinfonia: quei capitali che una buona politica avrebbe dovuto incanalare verso la modernizzazione del sistema infrastrutturale e produttivo della penisola furono invece usati per finanziare una bolla speculativa edilizia incontrollata e i vent’anni del carnevale berlusconiano a beneficio delle sue clientele.

È evidente il parallelo con il momento attuale: nel post coronavirus il nostro Paese si trova nuovamente a gestire rilevanti fondi, interni e provenienti dall’Europa. Come si è trovato a gestirli in maniera indiretta dopo l’entrata nell’Euro. Ora come allora questo scatena gli appetiti della parte peggiore della classe imprenditoriale italiana, quella che nella cosiddetta Seconda Repubblica sosteneva compattamente Berlusconi ed ora è sempre più egemonica in diversi partiti, tanto che Carlo Galli riassume l’attuale fase politica italiana esclusivamente nella dialettica fra il neoliberisti di tendenza anglosassone e ordoliberalisti  di tendenza tedesca. Dialettica lasciata ovviamente da parte quando si tratta di difendere i proprî interessi. Lo vediamo ogni giorno nella martellante campagna di Confindustria lanciata sui media, per cui ha mobilitato tutto il suo collateralismo. Sono quegli imprenditori per cui, per citare Mariana Mazzucato, lo Stato deve avere due funzioni: o quella meramente garantista e assistenzialista nei loro confronti quando sono in difficoltà oppure quella di concessionario acritico di incentivi fiscali a pioggia, incentivi di cui la letteratura economica ha ormai da tempo dimostrato l’inefficacia. Senza precise condizionalità si traducono infatti in un mero aumento degli utili senza portare quell’aumento degli investimenti privati cui in teoria sarebbero finalizzati. Investimenti privati che in Italia sono fra i più bassi in Europa malgrado gli ingenti patrimoni privati presenti nella penisola.

Sono gli stessi ambienti e interessi che più in generale mantengono un approccio ideologico liberista al dibattito sul ruolo dello Stato nel nostro Paese; approccio che non permette d’interrogarci, ad esempio, sul perché l’industria siderurgica tedesca abbia ricevuto aiuti condizionati ad un miglioramento degli impianti mentre in Italia siamo solo riusciti a produrre il disastro di Taranto, in cui il bilanciamento tra profitto di capitale, diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, tutela dell’ormai complesso ecosistema jonico è perseguito con sempre più grande difficoltà, senza una visione globale e di lungo periodo capace di smarcarsi dalle mani del proprietario privato di turno. O ancora perché gli aiuti francesi a Renault siano legati ad una svolta ecologista mentre agli Agnelli-Elkann siano stati dati da Cassa Depositi e Prestiti con minori condizionalità.

In questo contesto bisogna anche evitare che i fondi del coronavirus post emergenza si trasformino in interventi a pioggia, siano essi la riduzione dell’IVA o la riduzione simmetrica del cuneo fiscale . Proposte che dimostrano un deficit di di idee della nostra classe dirigente e la sua impreparazione di fronte al cambio di politiche a livello europeo. La riduzione del cuneo sarebbe una ripetizione della strategia di cortissimo respiro secondo cui l’unico modo per mantenere la produttività italiana è la riduzione del costo del lavoro, invece che l’innovazione. Strategia che ci ha portato a competere con Turchia e Polonia per il ruolo di terzisti sul mercato tedesco invece che con Olanda e Germania per prodotti di punta sul mercato europeo. Strategia che ha vanificato un’altra delle possibili ricadute positive del vincolo esterno. Un’altra delle scommesse del vincolo esterno prevedeva infatti che le nostre imprese, non potendo più contare sulle svalutazioni competitive per poter restare sul mercato europeo, si sarebbero trovate costrette a investire in innovazione. Purtroppo le “Relazione per Paese relativa all’Italia” (Country Report) della Commissione Europea lamentano da anni che questo non si è verificato. Come chiarisce Marta Fana nei suoi libri, si è puntato tutto sulla svalutazione interna, sull’abbassamento dei salari, spingendo ancora di più i meccanismi di accumulazione del capitale. È lo stesso ciclo liberista che ha prodotto la contrazione della domanda che ha provocato prima la crisi del ’29 e poi, tramite un approccio ideologico alla sua gestione, l’avvitarsi della crisi su se stessa fino all’ascesa del nazismo .

Ciclo che noi della Rosa Bianca pisana vorremmo si interrompesse: lo dobbiamo ai ragazzi di Monaco.

Ciclo che si può spezzare facendo crescere la domanda aumentando sia gli investimenti che la quota parte dei salari sul PIL in modo da recuperare la capacità d’acquisto persa in questi anni, dando alla Banca Centrale Europea un chiaro mandato di lotta alla disoccupazione e, non ultimo, facendo agire lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza per ridurre l’insicurezza che sta distruggendo il nostro tessuto sociale e riaprendo la strada alle tendenze autoritarie.

Ci rendiamo perfettamente conto di come si tratti di un vasto programma e come servirebbero quantomeno una sinistra e un sindacato per realizzarlo, intesi come complessità di spazi di rappresentanza politica e sociale, reciprocamente autonomi, che contribuiscono ad una diversa narrazione del mondo. Per il bene dell’Italia e dell’Europa dobbiamo impegnarci a superare la debolezza dei sindacati e costruire un  soggetto politico che riprenda un’analisi di sinistra della realtà. Per evitare l’avvento di un nuovo fascismo è urgente proporre un modello che sappia integrare i bisogni di emancipazione dei singoli e delle singole categorie sociali all’interno di un quadro di lotta progressivo di un blocco sociale compatto. A questo fine è fondamentale educare i singoli e le categorie, come ci insegna la comunicazione non violenta, a riconoscere i propri bisogni e rivendicarli. Primo passo, spesso difficile e doloroso ma indispensabile, per poter portare il nostro contributo alla crescita della collettività. Ed è proprio qui che noi, come cittadine lavoratrici e cittadini lavoratori, dobbiamo fare la nostra parte per far ripartire il Paese, come esortavamo nel titolo. Il nostro maggior apporto dev’essere quello di prendere coscienza del nostro ruolo per lo sviluppo del Paese, di ribadire che non esiste una prospettiva di sviluppo se non valorizzando le peculiarità di tutti i cittadini . Bisogna assolutamente evitare il tragico errore fatto ai tempi della legge Fornero, quando tutto il peso della crisi fu riversato sulle spalle delle lavoratrici e dei lavoratori e delle classi meno abbienti, con conseguenze a cascata devastanti anche sul tessuto delle piccole e medie aziende italiane. Bisogna far capire agli imprenditori che solo garantendo il potere d’acquisto dei lavoratori possono garantire i propri profitti.

Pur lavorando a questo programma di lungo respiro, nell’immediato ci siamo rifatti alla lettura di Colin Crouch che nel suo libro rammenta come in Paesi con sindacati indeboliti da anni di egemonia culturale incontrastata del pensiero liberista, l’introduzione del salario minimo sia stata il freno alla legge bronzea dei salari ed un metodo per aumentare la quota parte dei salari sul PIL e sostenere la domanda interna. Proprio per questo abbiamo invitato Marta Fana, che nel suo libro “Basta salari da fame“ ha avanzato la proposta dell’introduzione anche nel nostro paese di un salario minimo, accompagnato da un pacchetto minimo di tutele in modo da evitare un livellamento verso il basso di salari e garanzie, proposta che come Rosa Bianca Pisa vorremmo fosse occasione di riflessione e confronto per tutta La Rosa Bianca e, perchè no, scelta condivisa per tutta l‘associazione. Allo stesso tempo, una discussione del genere costituirebbe un avanzamento nella discussione, poiché si metterebbe in relazione con il tema della rappresentanza sociale nel nostro tempo, del ruolo delle azioni collettive – in particolare nel campo dei nuovi lavori e dell’economia gig – attraverso anche l’esperienza mobilitativa sul campo delle precarietà nei vari contesti.

SCHEMA RIASSUNTIVO

1. Necessità di stabilire il quadro macro-economico su tre versanti:

– dinamica storica dal secondo dopoguerra;

– trentennio post 1989 ed aspettative liberiste;

– crisi post Covid-19

2. Quadro sociale a livello europeo ed italiano. La Romania, un modello per tutta l’Europa

periferica?

3. Le aspettative sul lavoro da parte di generazioni diverse: aspettative, potenzialità, sofferenze.

4. Le possibilità dell’azione collettiva in senso rivendicativo e il ruolo dei corpi intermedi di

rappresentanza sociale.

5. Le possibilità degli interventi sul lavoro intesi come:

– legislazione a brevissimo termine (indicando i soggetti di riferimento e le ragioni);

– pianificazione pubblica a medio-lungo termine (e relative fonti di finanziamento);

– cosa produrre, come produrre, per chi produrre;

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– relazione con i diversi soggetti economici privati (transnazionali e PMI).

BIBLIOGRAFIA

Mariana Mazzucato: “ The Entrepreneurial State: Debunking Public vs. Private Sector Myths ” (Anthem) 2013

Colin Crouch: “ Will the gig economy prevail? ” (Polity Press) 2019

Guido Pescosolido: “ La questione meridionale in breve. Centocinquant’anni di storia ” (Donzelli) 2017

Thomas Piketty: “ Le Capital au XXIe siècle “ (éditions du Seuil) 2013

Luciano Gallino, Paola Borgna: “ La lotta di classe dopo la lotta di classe ” (Laterza) 2012

Lorenzo Zamponi, Lorenzo Bosi: “ Resistere alla crisi. I percorsi dell’azione sociale diretta ” (Il Mulino) 2019

Marta Fana, Simone Fana: “ Basta Salari da Fame “ (Laterza) 2019

Marta Fana: “ Non è lavoro, è sfruttamento “ (Laterza) 2017