Antisemitismo in crescita. Che fare?

il seguente articolo è stato pubblicato sulla rivista Il Margine 7-8 (2019). Al seguente link sono disponibili le info per gli abbonamenti alla rivista.

di Massimo Giuliani

La senatrice a vita Liliana Segre è stata nelle ultime settimane al centro dell’attenzione mediatica per due ragioni.

RIGURGITI DI NEO-FASCISMO
La prima: la sen. Segre ha proposto in Senato una commissione
parlamentare «contro» (ossia per monitorare e predisporre eventuali
interventi legislativi per contrastare) il razzismo, l’intolleranza,
l’antisemitismo e l’hate speech, ossia l’incitamento all’odio, tutti
fenomeni collegati e vertiginosamente in crescita nel nostro Paese.
Nel Senato della Repubblica Italiana la sua proposta è passata a
maggioranza, ma con l’astensione dei partiti della destra. Per
qualunque altro provvedimento, l’astensione o il voto contrario della minoranza parlamentare sarebbe stato normale, ma su questo tema – che sia formalmente, sia materialmente sta alla base della nostra costituzione uscita dalle macerie della seconda guerra mondiale e del ventennio fascista – l’astensione delle ‘destre’ (pur come blocco d’opposizione al governo) è un segnale brutto, ossia foriero di ambiguità sui valori fondamentali della nostra vita socio-politica e pericoloso in quanto una significativa porzione di parlamento, astenendosi dall’approvare una tale commissione, ha mandato un messaggio di sostanziale sdoganamento di quei fenomeni, implicitamente ammettendo che essi albergano, di fatto, diffusi e incontrastati, tra i molti che votano a destra. Certo l’antisemitismo non è solo un fenomeno di destra; in chiave spesso anti-israeliana (o anti-sionista) è un fenomeno che si trova anche nella sinistra, soprattutto in quella dei ‘duri e puri’ (erede di un internazionalismo anni Settanta).

Ma a fronte di tale frangia ideologica, è invece nel rigurgito
italiano di neo-fascismo che vediamo oggi il ritorno di parole d’ordine e di volgarità razziste, di simboli nazisti e di un irrazionale odio verso il diverso, ossia l’altro da un presunto «noi-standard»: il nero (vedi il caso Balottelli), l’omosessuale, l’islamico (specie se immigrato), e naturalmente l’ebreo/l’ebrea, l’eterno bersaglio – eterno in quanto antico e medievale, moderno e contemporaneo – di chi cerca qualcuno da odiare, su cui riversare la propria rabbia e frustrazione sociale, su cui scaricare ‘colpe’ storiche e metafisiche a un tempo, un capro espiatorio e una vittima sacrificale, buoni per ogni rito apotropaico in difesa della propria (supposta) identità chiara e distinta. La proposta parlamentare della Segre nasce dalla
constatazione che il nostro tessuto sociale, culturale e politico è
andato degenerando, anzi è retrogredito a una fase quasi precostituzionale per via della diffusione di un sostanziale razzismo che assume via via forme molteplici; quella proposta di commissione
nasce dal bisogno di accrescere la consapevolezza della pericolosità
della mentalità nazionalista e fascista che sembra avere sempre più
adepti.
Quest’ultima non è certamente un’esclusiva italiana (si consideri il
successo dei partiti/movimenti xenofobi e nazionalisti affermatisi in
Ungheria, in Polonia e persino in Svezia, in crescita anche negli
Usa sotto la presidenza Trump), ma in Italia essa è frutto – anche –
dello sdoganamento negli anni Novanta del fascismo nostrano, con
riabilitazione di Mussolini allegata, e con l’imbarbarimento del
discorso pubblico, complice una crisi economica che continua da
ormai oltre un decennio e che nessun governo sembra capace di
invertire.
È proprio nei momenti di crisi sia economica sia identitaria,
quest’ultima forse più percepita e propagandata che reale, che si fa
ricorso ai capri espiatori, che aumenta la conflittualità sociale, che si
butta all’aria il tavolo del contratto sociale.


UN VIRUS DILAGANTE
La seconda ragione per la quale la sen. Segre è stata al centro
dell’attenzione sociale e politica di queste settimane è la ‘rivelazione’ che la stessa, in quanto ebrea e in quanto sopravvissuta alla deportazione nel Lager di Auschwitz all’età di quattordici anni, è fatta oggetto quotidiana di messaggi elettronici, soprattutto social-mediatici, di natura antisemita: messaggi di odio personali, insulti e minacce che hanno suggerito alle autorità di pubblica sicurezza di Milano di dotare la senatrice di una scorta (due carabinieri) per i suoi spostamenti pubblici.
Questa personalizzazione dell’hate speech, contro cui si batte politicamente la sen. Segre, è la forma ideale con cui amano manifestare i propri sentimenti gli antisemiti: non basta prendersela con «gli ebrei» (al plurale e in astratto); molto meglio trovare un target concreto, individuale, magari donna e dal profilo pubblico. Qui non ci sono scuse politiche o partitiche, qui il pregiudizio razzista prende il nome antico e sempreverde di antisemitismo. È un fenomeno sociale e culturale ampiamente documentato e studiato, preciso e articolato, dalle radici lontane e profonde, un virus che si riproduce anche in fase di latenza prolungata. In Italia viene monitorato e oggettivamente registrato dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) di Milano, attraverso un Osservatorio sull’antisemitismo che annualmente raccoglie e analizza dati sul diffondersi di questo fenomeno, assai indicativo dello stato di salute morale, culturale e sociale del nostro Paese. Non si contano, naturalmente e per fortuna, le reazioni a quella ‘rivelazione’ e gli atti di solidarietà nei confronti della sen. Segre: a Milano in migliaia si sono radunati davanti al Memoriale della Shoà al Binario 21; proposte di cittadinanza onoraria sono piovute da un alto numero di consigli comunali; offerte di onorificenze, lauree honoris causa ecc.
A un eccesso rischia di seguirne un altro: quello della celebrazione personale dalla quale la sen. Segre è rifuggita per una vita. Non c’è nessun ‘merito’ nell’essere sopravvissuti all’odio antisemita dei nazisti (e dei fascisti italiani loro collaboratori) che hanno mandato milioni di ebrei alle camere a gas. Ma, in una Repubblica democratica e culturalmente illuminata, non dovrebbe essere un merito neppure combattere il razzismo e l’antisemitismo in tutte le loro manifestazioni. È un dovere, e basta. Come è un dovere educare alla memoria e alla storia del nostro recente passato, e coltivare un forte senso critico verso ogni retorica nazionalistica.
Eppure, sono i dati più recenti del CDEC, l’11% degli italiani nutre sentimenti negativi verso gli ebrei; il 33% è ambivalente (condivide alcuni di quei sentimenti negativi). Sommati, fanno quasi un italiano su due. Spaventoso. Allarmante. Indegno di un paese civile.

E NOI, CHE COSA FACCIAMO?
Eppure, che cosa si fa – che cosa fanno lo stato, la società, la
scuola e gli intellettuali, le chiese – che cosa facciamo noi, per
contrastare il flusso di migliaia di tweets quotidiani e di profili
Facebook e di centinaia di siti dichiaratamente antisemiti in Italia?
Nel 2018 nel nostro Paese sono stati denunciati 197 episodi di
antisemitismo (e non sappiano di quelli non denunciati). C’è allora da
stupirsi che le sinagoghe e le scuole ebraiche italiane siano costantemente presidiate da camionette dell’esercito o della polizia
(a Roma come a Modena, per dire di una piccolissima comunità ebraica in cui sono stato pochi giorni fa)? O che si debba raccomandare ai nostri figli di non mettere la kippà in pubblico? O che i responsabili più noti e riconoscibili dell’ebraismo italiano viaggino scortati?

NON RECEDERE DALLA DIFESA DEI VALORI DELLA DEMOCRAZIA
Non sono, personalmente, di quelli che amano gridare «al lupo!».
Non mi piace parlare o tenere corsi sull’antisemitismo.
Penso che, per auto-definirsi, la cultura ebraica sia sufficientemente ricca di valori, e di testi che alzano l’asticella dell’etica pubblica e della moralità personale, e di persone e movimenti che hanno contribuito a forgiare il meglio della storia e dell’identità dell’Occidente: non abbiamo bisogno degli antisemiti per sapere chi siamo o che cosa significhi essere ebrei.

Non condivido la definizione del filosofo francese Sartre per cui «è ebreo colui che l’antisemita definisce tale». Credo piuttosto che combattere razzismo e antisemitismo – e ogni forma di totalitarismo – sia un segno di civiltà e forse il lascito più importante, per quanto impegnativo e difficile, del XX secolo alle nuove generazioni.

Educarle in tal senso fa parte della mia professione di insegnante e della mia vocazione di intellettuale. Credo anche sia un dovere e un impegno di tutta quella parte di società che si riconosce nei valori della nostra carta costituzionale e nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Nessuno sa quando e come usciremo dalla crisi di questo momento, nessuno ha soluzioni facili o immediate. Ma è certo che non se ne esce se rinunciamo alla libertà per tutti e al rispetto della dignità di tutti, soprattutto delle minoranze e dei cosiddetti «diversi», o se rinunciamo a difendere libertà e dignità per tutti insieme al resto dell’Europa.
La voce di Liliana Segre, come le voci di Hannah Arendt, di Agnes Heller e di Simone Veil – come le voci degli ultimi sopravvissuti-testimoni della Shoà – sono oggi l’antidoto più prezioso per non recedere da un’intransigente difesa dei valori fondamentali della vita democratica.