Piergiorgio, l’utopia della guarigione

Domenica 8 novembre un malore improvviso ha colto e ci ha portato via Piergiorgio Cattani. Già presidente dell’associazione “Oscar Romero” di Trento, giornalista e direttore di unimondo.org ci ha accompagnato con le sue riflessioni attraverso le sue pubblicazioni con la casa editrice “Il Margine” e con la rivista.

Lo ricordiamo nell’affetto e nella preghiera. Raccogliamo il suo impegno a coltivare uno sguardo profondo anche nelle difficoltà della vita. Ci mancherà.

Di seguito trovate il suo articolo comparso sulla rivista “Il Margine” su “L’utopia della guarigione” per il numero 1-2 del 2016.

“L’utopia della guarigione”

«E per quanto concerne la malattia:  non saremmo forse quasi tentati di chiederci  se di essa in generale possiamo fare a meno?» Friedrich Nietzsche,  Prefazione alla seconda edizione de La gaia scienza

Come  sa  chi  mi  conosce,  per  me  parlare  di  guarigione,  più  che  essere un’utopia, è un paradosso. Così scrivo nel mio libro che appunto porta come  titolo  la  parola Guarigione.  Un  disabile  in  codice  rosso (Il  Margine, 2015): «La mia patologia generale però, fino adesso, non ha cura, benché le ricerche continuino incessanti. Ci sono passi in avanti e sono convintissimo che, come sempre avvenuto in passato, pure questa malattia verrà debellata, attraverso  interventi  genetici  o  farmacologici,  attraverso  cellule  staminali» (p. 146). La scienza sconfiggerà questa malattia ma sicuramente poi ne arriveranno altre, ci saranno altri “inguaribili”. La mia utopia dunque non prevede un mio ritorno completo alla salute. Non aspetto i miracoli della scienza medica. Mi consolo perché  so che  gli  utopisti sono di  fatto  inguaribili: ottimisti, sognatori, artisti, pure politici. Non sono finiti bene, non sono guariti, nonostante  i  tentativi  di  farli  ritornare  alla  salute, considerata  non  come  assenza di  malattia,  ma  come  normalità  “sociale”.  Ogni  trattamento,  ogni  rieducazione è inutile per gli utopisti. Rimarranno sempre tali e quali. La  mia  guarigione  dunque  può  essere  considerata  un’utopia,  perché  appunto vorrebbe approdare a un luogo che non c’è. In un certo senso conta di più il viaggio, il cammino verso Utopia e non la descrizione dell’isola stessa;    e    ancora    di    meno    il    tentativo    di    concretizzare nella realtà quell’immaginazione utopica.

Scrivo  ancora  nel  mio  libro:  «Come  numerose  parole italiane  che  finiscono  in  -ione,  il  termine  guarigione  indica  un  movimento,  un  processo, un’azione  che  si  evolve  nel  tempo,  un  qualcosa  di  non  ancora  compiuto. Anche la mia particolare guarigione è quindi un evento in pieno svolgimento, con passi avanti e con cadute insospettate. Forse neppure con la morte si concluderà questo cammino» (p. 155). Penso  che  la  vita  sia  un  continuo  apprendistato.  In  un  certo  senso  tutti dobbiamo guarire da qualcosa: innanzitutto dalle nostre paure (in particolare dalla paura della morte), poi dall’idea di bastare a noi stessi e di essere onnipotenti.  Comprendere  i  nostri  limiti  cercando  una  positiva  relazione  con  gli altri  è  ciò  che  io  nel  libro  chiamo  “guarigione”:  è  la  tensione  verso un’armonia con il mondo che ci circonda, ma anche con il nostro corpo che, sano  o  malato  non  importa,  può ugualmente  trovare  un  suo  positivo  equilibrio. Il  termine  “guarigione”  ha  poi  un’importanza  fondamentale  nelle  religioni.  Soprattutto  il  buddhismo  insiste  molto  su  questo  concetto,  in  quanto per  quella  sensibilità  occorre  guarire  dalla  vita  stessa.  Esiste  addirittura  il “Buddha della guarigione” che, guarda caso (credo per una coincidenza imprevedibile),  è  raffigurato  dell’identico  colore  azzurro/blu  della  copertina del  mio  libro.  Il  blu  è  il  colore  della  guarigione.  Va  da  sé  che,  nel  buddhismo, essa è considerata come la consapevolezza dell’inanità della nostra vita individuale  e  dei  nostri  desideri,  che  vanno  “limitati”,  se  non  addirittura cancellati completamente. La guarigione tuttavia, per usare una terminologia occidentale, riguarda “il corpo e l’anima” cioè tutta la persona. Noi abbiamo dimenticato che prime comunità cristiane, appellavano Cristo come “medico” dell’anima ma, sicuramente, anche del corpo: ci si ricollegava  all’attività  pubblica  di  Gesù,  contrassegnata  da  azioni  tipiche  di  un guaritore  e  di  un  taumaturgo,  e  poi  anche  dalle  capacità  di  far  recuperare, più  o  meno  miracolosamente,  la  salute  agli  ammalati,  potere  che  avrebbero avuto anche i discepoli. Nel libro ho cercato di raccontare la mia “guarigione dell’anima”, non il recupero  della  salute  e  ancora  meno  il  desiderio  di  una  salvezza  appannaggio  della  fede.  Sono  guarito  dalle  tre  emergenze  che  mi  avevano  condotto all’ospedale, ma ciò che volevo narrare riguarda la maturazione di una nuova consapevolezza della vita e in particolare dei limiti che la nostra biologia e la nostra esistenza stessa impongono. “Conosci  te  stesso!”,  questo  il  motto  più  celebre  ereditato  dalla  civiltà degli  antichi  greci.  Non  si  tratta  però  di  una  conoscenza  astratta.  Mi  piace interpretare  questo  concetto  secondo  l’accezione  ebraica,  biblica,  cioè  concreta,  concretissima,  quasi  carnale.  Il  cantico  di Zaccaria,  nel  Vangelo  di Luca,  parla  di  una  “conoscenza  della  salvezza”  che vuol  dire  la  partecipazione a un evento storico, non la comprensione di un concetto. La  mia  guarigione,  mai  comunque  raggiunta,  sempre  provvisoria  e  precaria, vorrebbe essere appunto la concreta accettazione del limite, indispensabile condizione per ottenere risultati impensati, appunto utopici.