Europa, il sogno deve continuare

Documento della rete nazionale C3dem

Premessa

In occasione del 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma (25 marzo 1957) le Associazioni e le persone aderenti alla rete di cattolici democratici “Costituzione, Concilio, Cittadinanza – c3dem” presentano questo documento come  contributo al rilancio della prospettiva europea e come spunto per un dibattito sia interno che pubblico.

Il documento non ha naturalmente la pretesa di affrontare i tanti, complessi problemi che l’UE ha di fronte, ma di individuare alcuni nodi significativi.

Percepiamo infatti, anche in Italia, preoccupanti segnali di sfiducia: dovuti in parte a ragioni legittime, che meritano attenta considerazione affinché si trovino risposte adeguate, ma anche a forme di propaganda demagogiche, che trasformano l’Unione Europea in un comodo “capro espiatorio” per ogni tipo di difficoltà. Nel formulare alcune valutazioni, idee e proposte, siamo consapevoli che per dare un futuro all’Europa non bastano, ancorché siano indispensabili, un migliore assetto e una più forte coesione sul piano istituzionale. E’ necessario coltivare un ethos comune, che si fondi su valori condivisi, sulla disponibilità al dialogo e all’incontro culturale. Questo percorso, che si poggia sulla ricchezza di tradizioni culturali che hanno radici antiche e profonde, ha bisogno dell’apporto e dell’impegno di tutti. E in questo “tutti” vogliamo qui segnalare il contributo che può e deve venire anche dalle diverse fedi religiose e, considerata la nostra specifica sensibilità, dai cristiani, ai quali è sempre chiesto un impegno attivo e responsabile per il bene comune.

Europa: il “sogno” deve continuare – the dream must go on

Abbiamo un immenso bisogno di Europa, mentre abbiamo troppo poca Europa e un’Europa troppo debole e incerta. Questa è la contraddizione in cui ci dibattiamo, come italiani. Ma non solo, anche come democratici e persone che hanno a cuore libertà, giustizia, pace, futuro dei nostri figli.

Tutti i segnali concordano in questa direzione. Non è da oggi che il mondo sembra in preda a un’altra delle sue crisi di transizione: la drammatica crisi finanziaria del 2008 con i suoi cascami europei (e italiani) del 2011 ci avevano già fatto capire che una certa stagione di globalizzazione, al tempo stesso ingenua e trionfante, era al capolinea. Ovunque si attrezzavano di nuovo poteri statuali per salvare il sistema (ed era ben necessario), rimettere la barca in assetto, inserire almeno qualche nuova forma di governo e regolazione dei processi economici, finanziari e sociali così pericolosamente instabili. Ora la Brexit e l’elezione di Trump ci hanno dato l’impressione improvvisa di un processo che può accelerare drammaticamente, forse anche con scossoni conflittuali. Ed assumere forme pericolosamente legate alle culture di destra. Mentre nuove forme autoritarie si affermano in paesi cruciali (India, Turchia, Egitto, per non parlar della Russia) e sembrano addirittura infiltrarsi in quello che era ritenuto il sacrario democratico europeo, come si vede dai casi ungherese e polacco.

In tutto ciò l’Europa come istituzioni e come soggetto è sempre più silente e divisa, quindi impotente. Al di là della capacità tecnica di salvarci dalla crisi del debito (grazie soprattutto alla Banca centrale di Mario Draghi), si è riusciti in questi anni a far sembrare irrisolvibile la crisi greca, a spaccarsi sulla gestione di un serio ma non così enorme problema di immigrazione, ad assistere impotenti alla secessione britannica, a continuare una politica di austerità che ha depresso il tono dell’economia continentale. Il tutto mentre le forze più reazionarie hanno continuato a crescere in vari turni elettorali, anche di paesi cruciali, identificando falsamente ma con successo crescente la “tecnocrazia” europea come il nemico delle popolazioni stressate da diseguaglianza, diversità e incertezze.

Una tale situazione e la diffidenza di tanti cittadini verso l’Unione sono fenomeni di cui è necessario capire le ragioni (e le responsabilità) per poter dare risposte credibili;  nello stesso tempo non bisogna mai dimenticare il cammino compiuto dall’Europa dal secondo dopoguerra ad oggi.

Dopo secoli di terrificanti conflitti e disumani stermini abbiamo infatti avuto pace, rispetto dei diritti, collaborazione fra stati e popoli, libertà di scambio e circolazione, istituzioni e moneta comuni, accordi sempre più importanti, riequilibri economici tra aree del continente…  L’Europa (e non solo ogni singolo paese di cui è composta) è vista da milioni di persone nel mondo come una meta ambita e agognata, come uno spazio di libertà,  di rispetto dei diritti umani, di garanzie sociali, di cultura, di efficienza, di opportunità,  di benessere… Mentre alcuni gruppi politici e sociali bersagliano continuamente l’Europa, migliaia di nostri giovani vivono, studiano e lavorano avendo come “perimetro” mentale e operativo il continente europeo e non solo il loro Paese o quello in cui andranno a risiedere.

A tutto questo hanno contribuito leader illuminati, forze politiche e sociali, intellettuali,  lavoratori, cittadini carichi di speranza e di progetti positivi. A immaginare e sostenere questa comune impresa sono stati importanti filoni culturali, tra i quali, con un ruolo e con protagonisti di fondamentale importanza, quello cattolico-democratico.

Nonostante i risultati ottenuti, il “sogno” di un’Europa sempre più forte e unita, sempre più capace di essere protagonista di pace e sviluppo per se stessa e nel mondo, sembra oggi essersi appannato.

E’ per questo che oggi, a 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma, sentiamo il dovere e la necessità di riproporlo: il “sogno” deve continuare – the dream must go on.

Non con appelli retorici o, peggio, nostalgici,  ma – sull’esempio dei Padri fondatori – sostenendo una visione “alta” con la concretezza di scelte e progetti. Dicendo a noi stessi e ai nostri concittadini che il nostro futuro di italiani, ma anche quello dei cittadini dei Paesi che si sentono illusoriamente più forti e in grado di competere da soli, sarà molto più difficile e incerto senza Unione Europea. Tra nuovi e vecchi giganti statuali e imperiali, infatti, ogni stato europeo è un fuscello. Se questo vale persino per la Germania, ancora di più per l’Italia, con la sua statualità ancora incompiuta e fragile.

Abbiamo il dovere di ribadire con chiarezza che mettere in discussione la moneta unica e addirittura proporre l’uscita dell’Italia dall’Euro non solo non è la soluzione ai nostri problemi e comporterebbe oneri pesantissimi per le nostre finanze, oltre a profonde difficoltà per i cittadini e le imprese, ma rappresenta anche, sul piano politico e culturale, un colpo, forse esiziale, alla stessa idea di unità europea. L’Euro da solo non poteva e non può essere sufficiente a una matura coesione politica dell’Unione, ma rinnegarlo significa minare alle radici le possibilità di un progresso in quella direzione.

Non ci è permessa quindi la facile rassegnazione. Occorre l’ottimismo della speranza, collegato al realismo dell’analisi e della ricerca di alleati. La politica italiana degli ultimi anni ha infatti seguito alcuni orientamenti corretti (la “barra diritta” su immigrazione e accoglienza, la critica dell’austerity, la ricerca di un ruolo più determinato e di un dialogo più serrato con i partners), ma a volte dato l’idea di scaricare sull’Europa le proprie debolezze. Abbiamo invece bisogno di costruire disegni condivisi, su alcuni punti cruciali, che non siano sospettabili di strumentalità.

Vogliamo quindi provare a indicare alcuni punti su cui lavorare.

  1. Progettualità delle istituzioni. Rilanciare una progettualità delle istituzioni, capace di investire risorse nuove nello sviluppo economico reale. Bisogna definitivamente andare oltre l’austerità immobilista e deleteria, ma non semplicemente immaginarsi di tornare a una stagione fordista irripetibile. Le istituzioni europee devono perciò diventare promotrici e sostenitrici di sviluppo comune, buono, giusto e sostenibile. Ben oltre le briciole del piano Juncker. La Banca europea degli investimenti può raccogliere capitali, sottraendoli alla speculazione finanziaria e potrebbe procedere – anche con un apposito ente di sviluppo che non comporti maggior oneri e che sia ben identificabile dai cittadini europei – al loro investimento selettivo su progetti qualificati e di ampio respiro, in spirito di trasparenza e competizione, privilegiando i giovani e il loro bisogno di formazione, di lavoro e di servizi.
  2. I valori irrinunciabili. Stringere le scelte sul rispetto dell’acquisizione democratica comune europea. Alla base del progetto europeo c’è certamente il libero confronto delle idee, ma, nello stesso tempo, ci sono anche i valori umanitari di solidarietà e accoglienza dei profughi e dei poveri. Nessun cittadino si deve sentire “escluso” dalla comune casa europea a causa della politica dei proprio governo, ma non è accettabile che vi siano governi che beneficiano del trasferimento di fondi europei e nel contempo praticano politiche discriminatorie e autoritarie o rifiutano di accettare le strategie comuni, anche sul terreno dell’immigrazione: occorre perciò esigere il rispetto degli obblighi derivanti dalla partecipazione all’UE.
  3. Operare gesti immediati e simbolici sulla democratizzazione delle istituzioni. L’Europa deve tornare vicina ai cittadini: non bastano le elezioni ogni cinque anni di un Parlamento che poi scompare dai radar dei mezzi di comunicazione. Il Parlamento Europeo deve essere valorizzato nel suo ruolo e riconosciuto come soggetto fondamentale nella vita dell’Unione.  Nell’immediato, va intensificato l’impegno delle Istituzioni europee (ma anche nazionali) nella comunicazione, informazione e per strumenti di consultazione e partecipazione dei cittadini. Anche a livello di singole nazioni, va dato più spazio al ruolo svolto dai Parlamenti nel discutere e recepire le direttive europee. Su un piano più di medio termine, vanno messe in agenda  forme di rafforzamento della legittimazione del “governo europeo” (cioè della Commissione), fino all’introduzione di una designazione diretta del suo Presidente. Occorre qualche sfida all’idea dell’ “Europa dei banchieri”, che convinca sempre più persone che l’Europa è dei popoli. Sfida rischiosa, certo, ma che proprio per questo costringerà a politiche più visibili e più popolari.
  4. Politica estera europea. Rafforzare immediatamente gli strumenti per una politica estera e della sicurezza comune. L’occasione del neonazionalismo trumpiano può essere anche in questo caso uno stimolo indiretto. Ma vanno superate gelosie, sovrapposizioni, incertezze dei singoli eserciti e delle singole burocrazie, con forme di collaborazione e razionalizzazione che portino a una complessiva riduzione delle spese per la difesa – a vantaggio di altri settori di intervento – e a un miglioramento delle funzioni di peacekeeping “targate” UE. Occorre provare finalmente parlare con una voce sola su capitoli cruciali per noi europei, come il Mediterraneo, l’Ucraina, la Siria, anche rafforzando la figura dell’ Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. L’Europa deve credere fino in fondo che promuovere, in modo unitario, la pace e la cooperazione nel mondo è non solo un dovere etico nei confronti delle popolazioni in conflitto o in difficoltà, ma è nel suo stesso interesse.  La pace è infatti condizione essenziale per lo sviluppo e per il commercio e sono prima di tutto i conflitti a provocare la fuga di migliaia di persone. Pensare di puntare ancora, come Europa o come singoli paesi, su approcci “neocolonialisti” significa negare quei diritti che pure vengono solennemente affermati (e che vigono nei nostri Paesi) e acuire quei problemi che, a parole, si vorrebbero risolvere.
  5. Sapere per valutare. Costruire una narrazione più convincente rispetto ai benefici e ai “fardelli” da condividere e redistribuire. E’ fondamentale non lasciare che si consolidino i luoghi comuni diffusi nei paesi mediterranei sull’arroganza dell’Europa tedesca, o in quelli nordici sugli sprechi dei paesi del Sud. Ognuno faccia la propria parte, in un quadro in cui risulti chiaro che conviene a tutti essere europei e che senza l’Europa il destino di ciascuno sarà peggiore.

In troppe occasioni – a volte in malafede, a volte per superficialità di comodo – si tende a mettere in luce pesi e vincoli e non i tanti vantaggi che l’esperienza del cammino europeo ha portato a migliaia di europei. In Italia, poi, può succedere che milioni di euro disponibili dai fondi europei non siano reperiti a causa di progettualità inadeguate o, una volta ottenuti, non vengano spesi o siano stati usati male (o addirittura in modo truffaldino). Occorre un severo monitoraggio sulle strutture regionali e nazionali che operano in questo ambito, perché è anche dalle modalità di gestione dei finanziamenti UE che dipende la fiducia dei cittadini nei confronti delle politiche europee (e del nostro stesso Stato).

  1. Fisco e bilancio. Riprendere in mano con coraggio i temi di un’armonizzazione fiscale e di un vero bilancio europeo, in grado di incidere positivamente sul miglioramento della vita dei cittadini dell’Unione.
  2. Lavoro giusto e sostenibile. In molti Paesi europei è tornato di drammatica attualità, da ormai troppi anni, il problema della disoccupazione, giovanile ma anche adulta. Occorrono politiche pubbliche – non solo dei singoli stati ma dell’Unione nel suo insieme – in grado di rilanciare l’occupazione, aprendosi ai nuovi ambiti di produzione, caratterizzati da innovazione e sostenibilità ambientale, e alle nuove opportunità nei servizi
  3. Rilancio dei progetti per i giovani. Dare nuovo slancio, con adeguati investimenti, ai progetti di scambio culturale, lavorativo, di volontariato per i giovani, che costruiscono, con la loro esperienza e loro sensibilità aperta,  il tessuto di base del “popolo europeo” e garantire livelli sempre più alti di istruzione e formazione, qualificando nel contempo i  percorsi di tipo tecnico e operativo.

Abbiamo bisogno di un nuovo grande investimento di energie politiche e culturali sull’Europa.

La qualità delle classi dirigenti – non solo politiche – di oggi e di domani si misura anche sulla loro capacità di essere all’altezza di un disegno di rilancio dell’Unione. Anche se gli antieuropeisti promettono nuovi paradisi nelle chiusure nazionalistiche e facendo leva su sentimenti di egoismo, la realtà ci dice che a valle di un sempre maggiore indebolimento o addirittura di uno smembramento dell’Unione ci sono un rancoroso declino, il rischio di nuovi conflitti, l’emarginazione di ogni popolo europeo dalle correnti vitali della storia.

Per tutti coloro che, come noi, non vogliono questo esito, è il momento di impegnarsi con coraggio  –  nel dibattito culturale, nel dialogo con i nostri concittadini, nel confronto esigente con chi ha ruoli di responsabilità a livello politico, economico, sindacale, associativo –  per dare un futuro all’Unione Europea.

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